Diritti / Attualità
“Il riconoscimento del genocidio subìto dal popolo ezida è doveroso e necessario”
Nel 2014 i miliziani dell’Isis massacrarono la popolazione ezida nel Kurdistan iracheno: 5mila morti, 7mila scomparsi, oltre 400mila profughi. L’Associazione Verso il Kurdistan Odv -che è appena tornata da un viaggio umanitario in quelle zone- rilancia l’appello a Parlamento e governo affinché riconoscano il genocidio, come ha già fatto l’Onu
Il 23 maggio di quest’anno una delegazione dell’Associazione “Verso il Kurdistan Odv” ha incontrato, durante un viaggio a scopo umanitario in Iraq, il Consiglio dell’Autonomia che amministra la regione di Shengal (in lingua kurda), Sinjar (in lingua araba), dove la delegazione era stata invitata.
Il confronto si è protratto per oltre cinque ore e si è svolto attorno ai problemi di una comunità particolarmente colpita dall’Isis e sul futuro della regione, ma anche sulla necessità di ricordare e di riconoscere, da parte dell’opinione pubblica internazionale, il genocidio subìto dall’etnia kurda di religione ezida.
Tra morti e profughi, la popolazione si è ridotta da 500mila a 250mila abitanti. Un dramma su cui si erano accesi, per lo spazio di un mattino, i riflettori dei media internazionali, poi prontamente dimenticato nel tempo della memoria breve. Troppo breve.
Nel 2014, per contrastare l’offensiva dell’Isis, nella regione abitata prevalentemente dagli ezidi, un’etnia dalla storia millenaria, erano presenti 25mila soldati iracheni e 12mila peshmerga, l’organizzazione militare del governo regionale del Kurdistan iracheno. L’Isis è arrivato a Shengal con 1.500 uomini: soldati iracheni e peshmerga hanno subito abbandonato il campo, lasciando anche le armi alle milizie islamiste. Non avevano alcuna intenzione di difendere la popolazione ezida.
Entrato in Shengal, l’Isis ha compiuto il massacro uccidendo 5mila persone e sequestrando migliaia di donne e bambini: le donne come schiave del sesso e i bambini da indottrinare e addestrare come soldati dell’esercito del califfato. Sembra una storia di altri tempi ma è di terribile attualità nella logica della guerra che si abbatte sulle popolazioni civili.
Nel 2014 una parte di coloro che sono riusciti a fuggire ha cercato riparo sulla montagna di Shengal che, con le sue grotte invisibili a chi non le conosce, li ha accolti. Ma nell’esodo verso la montagna centinaia di donne, vecchi e bambini sono morti di fame e di sete. I sopravvissuti hanno trovato, su quei contrafforti, alcuni militanti delle unità di difesa kurde che erano scesi incontro a loro dai monti Qandil e che hanno respinto i primi tentativi dell’Isis di addentrarsi sulla montagna, cominciando, allo stesso tempo, ad addestrare giovani uomini e giovani donne alla resistenza armata.
Sono sorte così le Ybs/Yjs, i primi nuclei di autodifesa maschili e femminili della popolazione ezida, che, nel corso dei secoli, aveva subìto diversi massacri: la storia racconta di 74 ferman, senza mai riuscire ad organizzarsi attivamente. Non questa volta, quando hanno liberato la loro terra. Nella lotta contro l’Isis sono morte e morti seicento combattenti delle formazioni di autodifesa e mille sono rimasti feriti. Ai caduti è dedicato il cimitero dei martiri sulla montagna.
Oggi Sinjar City è una città che è stata completamente distrutta, prima dai bombardamenti di terra dell’Isis per conquistarla, e poi dai bombardamenti aerei della coalizione internazionale per cacciare gli islamisti del califfato. Entrarvi è impressionante: non ci si trova davanti ai segni di una guerra ma a una devastazione che si presenta come un unico, dirompente scenario di guerra. Nell’idea e nei progetti del Consiglio dell’Autonomia, la ricostruzione non dovrà rimuovere tutte le macerie perché in parte dovranno rimanere a futura memoria.
In questi ultimi anni, la popolazione ezida ha conosciuto un’autentica rivoluzione costruendo una nuova società caratterizzata dall’autodeterminazione democratica. Il Consiglio dell’Autonomia è composto da tredici donne e da tredici uomini. Le donne partecipano, per la prima volta da protagoniste, non solo alle formazioni di autodifesa, ma anche e soprattutto alla vita politica e sociale. Colpisce la giovane età di molte di loro. Al momento del dramma collettivo, nove anni fa, ieri e allo stesso tempo un’altra epoca, erano bambine. Con il massacro nei loro sguardi che dicono “mai più”.
Il protagonismo delle donne si esprime soprattutto nell’attività culturale, sociale e politica dell’associazione delle donne ezide “Taye”, un movimento aperto a tutte le donne che abitano la regione e non solo alle donne ezide. Inoltre la Fondazione delle donne ezide, Weqfa Jinen Ezidi, ha posto al centro delle proprie iniziative la liberazione delle prigioniere.
Tutte e tutti, il Consiglio dell’Autonomia e le organizzazioni delle donne chiedono insistentemente e intensamente che i Parlamenti e i governi -nel nostro caso, il Parlamento e il governo italiano- li riconoscano come vittime di un genocidio, come ha già fatto l’Onu, dopo il lavoro svolto dalla Commissione istituita dal Consiglio dei diritti umani.
Nadia Murad, che ha vissuto sulla propria pelle il sequestro da parte dell’Isis, è stata insignita del Premio Nobel per la pace. Il report “They came to Destroy: Isis Crimes Against the Yazidis” sostiene l’applicabilità dell’articolo 2 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948, di cui anche Siria ed Iraq fanno parte. La condotta delle forze dello “Stato islamico” presenta infatti una brutale, precisa ratio di sterminio degli ezidi in quanto gruppo etnico: condizione, questa, necessaria per la sussunzione della fattispecie genocidiaria. Il report è stato redatto in base alle testimonianze di operatori medici e umanitari, attivisti, giornalisti e sopravvissuti (Maria Teresa Matulli, Istituto affari internazionali).
Oltre che dall’Onu, il genocidio è stato finora riconosciuto dal Bundestag tedesco, dal Parlamento olandese, da quello belga e da quello australiano.
In Italia il 26 marzo 2019 la Commissione Affari esteri e comunitari della Camera ha approvato una risoluzione, proposta da Simona Suriano, che impegnava il governo ad assumere iniziative per sensibilizzare la comunità internazionale e valutare le modalità più opportune per riconoscere il genocidio ezida. Nulla poi è stato fatto.
Si tratta, invece, di un dovere politico, sociale e morale nei loro confronti. In quel dramma epocale per la popolazione ezida, 5mila persone sono state uccise, 7mila sono scomparse dopo il rapimento da parte dell’Isis, 100mila sono arrivate in Europa, 350mila sono state costrette all’esodo e, in buona parte, si trovano ancora nei campi profughi nel Nord dell’Iraq. Su una popolazione di 500mila abitanti. Se questo non è genocidio.
Ricordarlo non significa soltanto essere vicini alla popolazione ezida ma anche valorizzare la dignità e la determinazione con le quali sta provando a costruire, a partire dalle macerie delle case, dei corpi e dell’anima, un futuro intensamente condiviso come comunità, in una vera parità di genere e nella forma sostanziale di una democrazia autenticamente vissuta.
Scendendo verso Baghdad si incontrano ai check-point, sulla corsia opposta, furgoni pieni di povere masserizie con le famiglie che tornano alle radici, dopo anni di spaesamento nei campi profughi. Andranno a vivere in tende ormai consunte dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e, da lì, proveranno a ricostruire con pochi, essenziali mattoni grigi, una piccola casa in muratura. Tra mille difficoltà, la vita pullula di bambini e bambine nati dopo il genocidio.
Le altre famiglie sono bloccate nei campi profughi del Kurdistan iracheno, dove il governo regionale frappone continui ostacoli al loro rientro, peraltro sottoposte a continui attacchi con droni da parte della Turchia: uno stillicidio quotidiano, con morti e feriti, di cui nessuno parla. Come delle continue violazioni dello spazio aereo dell’Iraq. Ma il desiderio di tornare a casa è più forte delle intimidazioni e del terrore seminato dal regime di Recep Tayyip Erdoğan.
In uno dei villaggi della regione, Serdest, l’Associazione Verso il Kurdistan Odv ha finanziato la realizzazione di un presidio sanitario: servirebbero decine di queste iniziative. Le organizzazioni delle donne ezide chiedono di essere sostenute nell’apertura e nella gestione di asili per bambini e di laboratori per l’autonomia economica delle donne. Sono impegnate a liberare, per riportarle a casa, le donne ezide che si trovano nel grande campo di detenuti di Al-Hol, in Siria, dopo essere state rapite dall’esercito del califfato. Sanità e scuola sono i presidi essenziali da cui vogliono e possono ripartire le comunità ezide. La loro determinazione, la loro dignità e la loro voglia di futuro non possono essere lasciate sole. Ma è fondamentale che venga riconosciuto dal mondo il genocidio di cui sono state vittime.
L’appello può essere sottoscritto da singoli, associazioni, gruppi, partiti. L’adesione va mandata ad antonioolivieri@libero.it, presidente dell’Associazione Verso il Kurdistan Odv. Grazie a Cecco Bellosi per il supporto.
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