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Diritti / Opinioni

Il diritto dei popoli alla pace nel primo anniversario della guerra in Ucraina

© Jon Tyson - Unsplash

Le fiaccolate per la pace di questi giorni non sono di protesta e rassegnazione, scrive Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale permanente dei popoli. “È bello pensarle come uno schierarsi per il diritto alla vita, all’autodeterminazione e alla presa di coscienza e lotta perché le guerre non impongano le loro leggi”

La notizia globale di questa fine di febbraio che occupa tutto lo spazio della politica, dei mercati, delle diplomazie è la “celebrazione” di una guerra che festeggia il suo (primo?) compleanno, con la condivisione di promesse e impegni di continuare fino a una “vittoria”, per la quale il numero di vittime di tutti i tipi (di distruzioni, di costi economici, sociali, di civiltà) non sembra contare nulla.

Tanto da cancellare -come irrilevanti: quasi fossero eco delle parole di Francesco, proposte come “ovviamente utopiche”- anche i pareri di autorità militari e di protagonisti storici della politica non certo dalla parte dei pacifisti che dichiarano che la pace, da raggiungere con accordi concreti e possibili, è la sola opzione ragionevole.

La notizia più generale e che trova il consenso esteso degli Stati dell’Unione europea, degli Usa, della Nato e il disaccordo formale e incerto delle Nazioni Unite, è quella che il crimine contro la pace, che è riassunto e radice di tutti i crimini, è stato abolito.

Il compleanno tragico dell’aggressione della Russia all’Ucraina, che è certamente un crimine contro il diritto internazionale, “celebra” di fatto non solo l’impunità (al di là di tutto il rito delle sanzioni, che non intaccano i signori della guerra), ma anche più a fondo la legittimità di tutte le aggressioni che la comunità internazionale constata come prodotto inevitabile di poteri contro i quali il diritto fondamentale delle persone e dei popoli non ha competenze. Se la pace è parola proibita all’incrocio dei poteri “democratici” di riferimento, non avrà certo né spazio, né credibilità in nessuna parte. Gli aggressori possono stare tranquilli: che si chiamino Erdoğan per i curdi (con o senza terremoto) ma non solo, Modi per il Kashmir, e Myanmar, Sri Lanka, Congo, Yemen, Israele.

Il Tribunale permanente dei popoli, contro tutte le evidenze sopra ricordate, crede e celebra il diritto dei popoli alla pace: inviolabile. Non importa quanto difficile. Una delle sue ultime sentenze sul genocidio politico in Colombia ha coinciso con gli accordi di pace in un Paese che la sta ricostruendo, nella riconciliazione e nella verità. Ed è una buona notizia che con il Brasile di Lula, e il Cile di Boric, e non solo, la Colombia di Petro, si siano dichiarati, nel caso della guerra contro la popolazione Ucraina, a favore di una mediazione di pace, rifiutando di aggregarsi a chi pensa ad impossibili, e in ogni caso criminali e inumane, vittorie militari.

Nelle notti di questi giorni di anniversari di guerra, in tante città, non solo di Italia, dove il Tribunale ha la sua sede, ci sono fiaccolate per la pace che non sono di protesta e rassegnazione. È bello pensarle come uno schierarsi per il diritto alla vita e all’autodeterminazione dei popoli, tanti che, lungo gli anni, si sono rivolti al Tribunale permanente dei popoli: come parte di una presa di coscienza e lotta perché le guerre (di tutti i tipi: ma tutte uguali nelle logiche e nella cancellazione della vita delle persone) non impongano le loro leggi.

Sappiamo bene che questa celebrazione del diritto alla pace è poco udibile e credibile in un contesto dove si celebrano le armi più sofisticate e “intelligenti”, fatto di tanti attori tra loro nemici ma uniti dagli stessi interessi di potere. Sappiamo e crediamo che la celebrazione della pace è imprescindibile e che coloro che dicono no a un mondo obbediente a progetti di guerra sono tanti, spesso invisibili, e privati di parola.

Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

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