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Diritti / Opinioni

Il promemoria dei Rohingya nel naufragio dei diritti umani. Gridarlo non è inutile

© Davi Mendes-Unsplash

Il 17 novembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato a larghissima maggioranza una risoluzione che indica il destino del popolo Rohingya tra le priorità non rimandabili. Ma che ignora l’esistenza degli altri “carichi residui” nei diversi Paesi del mondo. La riflessione di Gianni Tognoni

Sullo sfondo di una guerra sempre incerta tra essere europea o mondiale, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso 17 novembre ha approvato, a grandissima maggioranza, una risoluzione che indicava tra le priorità non rimandabili della comunità internazionale la soluzione del destino del popolo dei Rohingya, che da protagonista-vittima del genocidio del 2017 da parte del governo militare del Myanmar “esiste” solo come un enorme campo di concentramento in Bangladesh, affidato agli aiuti umanitari internazionali.

In quegli stessi giorni in una spiaggia dell’Indonesia (chi sa, non lontana dall’incanto del G20 di Bali) veniva “scoperto” un battello con 110 Rohingya, di cui 45 donne e minori, sopravvissuti a malapena a una navigazione di un mese. Nulla di nuovo, certo: episodi simili sono all’ordine del giorno per i “sopravvissuti” al genocidio, che cercano rifugio diverso da quello del campo di concentramento o di una “patria” che non li riconosce. E ancor meno stupiscono in un contesto come quello italiano ed europeo, specie di questi tempi. Il popolo trasversale di tutti i colori e Paesi costituito da rifugiati, migranti, espulsi, trafficati nei modi e per gli interessi più diversi è sempre più una presenza stabile nelle cronache internazionali.

La dimensione di questo popolo, e la sua composizione, viene periodicamente calcolata, con approssimazioni più o meno accurate, a seconda delle definizioni che si assumono per identificare, sommare, moltiplicare i “campioni” che possono rientrare nelle valutazioni ufficiali. Non importano qui gli aspetti strettamente quantitativi: sono dell’ordine di milioni, tanti. Un intero Paese. I Rohingya ne sono una piccola parte: la si assume qui come esemplare per varie ragioni: per la condizione di “identità negata” che ne rende il genocidio un “processo in corso”; per la loro visibilità come problema da contenere, e non come futuro da costruire; per essere letteralmente quel “residuo” al quale non si può riconoscere la caratteristica di soggetti di diritto, perché porli in un luogo o in un altro che sia loro implicherebbe accordi tra le potenze che nel Myanmar giocano i loro equilibri, discussi a Bali, o in Egitto, o nella guerra in Ucraina.

Fare promemoria a partire da una realtà così marginale e clandestina per il mondo che conta, come i Rohingya -mentre anche da noi (Italia ed Europa) si sta combattendo, ormai da tanti anni, una guerra vera e propria contro i migranti e contro coloro che vogliono rappresentare un diritto che accoglie e non che erige muri di qualsiasi tipo- vuole dunque ricordare due cose che nelle politiche “sui” (mai “per”, “con” i) migranti si accantonano.

L’antico diritto inviolabile dell’habeas corpus, riformulato solennemente nella Dichiarazione universale dei diritti umani, come indicatore di civiltà è strutturalmente trasformato in merce di scambio, residuale, nei rapporti della società degli Stati che si riconosce nelle Nazioni Unite; per questi residui, non umani, l’unico diritto esistente è quello “umanitario”, che è molto importante, ma è anche aggettivo molto utile a coprire e sostituire i diritti reali, secondo “l’etica” della elemosina, che non si può rifiutare, ma che cancella la dignità della autonomia dei diritti. Per i Rohingya negli ormai cinque anni dal loro genocidio l’aiuto umanitario complessivo internazionale è stato di tre miliardi di dollari (incluse tutte le spese per la logistica dei donatori). Quanti sono i miliardi annui dati e programmati da parte Ue a un dittatore esemplare come Erdogan per “custodire-rendere invisibili” migranti di ogni origine? E quanti i miliardi non contabilizzabili della guerra in Ucraina, che anche solo per interventi umanitari prosciuga, per grandezza e strategie politiche, tanti aiuti destinati ad altri?

La storia dei Rohingya è abbastanza poco nota per rappresentare i tantissimi popoli, minoranze di tutti i tipi e origini: ognuna, per definizione, “minore” numericamente: tutte esposte (salvo le eccezioni dei Paesi in qualche modo dominanti: come il Qatar che è luogo e strumento di “sacrificio”, senza se senza ma, di tanti migranti), ai quali i modelli di sviluppo economico, di diseguaglianza, di politiche estrattive di vita e non solo di materie prime impongono di essere perenni migranti dalle loro identità e civiltà. Le statistiche ufficiali elencano bene gli Stati più sfortunati, secondo i più diversi indicatori. I tanti Rohingya non compaiono. Come le popolazioni indigene dell’America Latina; le tante etnie dell’India, o della Cina; il Kashmir; i Curdi della Turchia, della Siria, dell’Iraq, dell’Iran; i popoli dello Yemen. Per non parlare del “mondo” da cui tutto può essere “estratto”, nella più perfetta impunità, come l’Africa.

Nella logica di chi si ritiene detentore del diritto-dovere di mantenere l’ordine costituito da una economia-politica che negli ultimi 50 anni ha progressivamente cancellato la memoria dei diritti umani (come orizzonte concreto, non come affermazione “umanitaria”) la convivenza tra i vertici globali di Bali e della Cop27 con la inciviltà esemplare degli infiniti naufraghi Rohingya, mediterranei, dei Balcani è strettamente “fisiologica”. Non c’è nemmeno bisogno di investire tempo e risorse come si è fatto per un poco per la pandemia: non esiste un vaccino per la violenza di una storia che prescinde dagli umani che la abitano sperando di divenirne, non per elemosina, cittadini.

Sappiamo tutti che i promemoria di questo tipo sono inutili e ridondanti. Un po’ come le raccomandazioni-risoluzioni che si moltiplicano. Le parole non sostituiscono i cammini. Forse è utile solo ricordarsi che la verità/verifica della civiltà, e ancor più della dignità del dove si vive è quella “gridata”, contro i silenzi di chi la vuol nascondere, dagli indicatori, umani, di ciò che non è tollerabile. La mappa globale di questi migranti è il promemoria necessario e obbligato per non stancarsi di cercare risposte.

Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli

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