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La maledizione delle terre rare avvelena le montagne del Myanmar

© Global Witness

Un’indagine della Ong Global Witness mostra gli impatti devastanti dell’industria estrattiva tossica nella regione semi-autonoma del Kachin, al confine con la Cina. L’ennesima “zona di sacrificio” dove un intero ecosistema di un Paese fragile paga il prezzo della transizione energetica delle economie industrializzate

Il moltiplicarsi delle segnalazioni riguardo a nuove miniere di terre rare nella regione semi-autonoma del Kachin nel Nord del Myanmar, al confine con la Cina, supportate dall’analisi delle immagini del satellite Planet che rivelano la presenza di 2.700 vasche di colore ciano là dove prima c’era solo densa foresta, hanno portato la Ong Global Witness a lanciare un’inchiesta sulle condizioni legali, politiche ed economiche dell’incremento dell’attività mineraria e sulle conseguenze per l’ambiente e la popolazione. I risultati dell’inchiesta di Global Witness, resi pubblici il 9 agosto, fanno emergere una ennesima “zona di sacrificio” dove un intero ecosistema all’interno di un Paese fragile paga il prezzo della transizione energetica nelle economie industrializzate.

Sul piano legale e politico il report rivela che il governo centrale del Myanmar non ha ricevuto alcuna richiesta di permesso d’estrazione. È la milizia che governa la regione, guidata dal comandante Zakhung Ting Ying, a concedere i permessi di sfruttamento a fini minerari di terreni spesso confiscati alla popolazione locale. Ed è la stessa milizia a controllare una rete di società registrate in Myanmar (dove non sono permessi investimenti esteri in società minerarie di piccola e media grandezza) che fanno da schermo a imprenditori cinesi, ricevendo in cambio una quota dei ricavi. Si tratta di una pratica consolidata nella regione che in passato è già stata impiegata per lo sfruttamento della giada, delle pietre preziose e del legno pregiato.

Le miniere illegali di terre rare potrebbero quindi essere una tra le principali fonti di finanziamento della giunta militare che, con il colpo di Stato del 3 febbraio 2021, ha rovesciato il governo democraticamente eletto guidato da Aung San Suu Kyi, arrestando centinaia di parlamentari e attuando, da allora, una pressante e sempre più violenta repressione che è costata la vita a più di 2.100 cittadini e la prigione a migliaia di oppositori, rappresentanti politici e della società civile.

Sul piano economico l’inchiesta di Global Witness rivela che la totalità delle terre rare estratte in Myanmar, principalmente terre rare pesanti, vengono esportate in Cina e costituiscono la principale fonte di approvvigionamento per cinque delle sei industrie di Stato che hanno il monopolio della separazione e raffinazione del minerale grezzo per ricavarne metalli e leghe di grande valore come il Dysprosium ed il Terbium indispensabili per la fabbricazione di magneti permanenti utilizzati nei motori elettrici, nelle turbine eoliche e in tanti altri dispositivi tecnologici. È importante ricordare che le industrie cinesi controllano l’80% del mercato mondiale della raffinazione delle terre rare. Dal 2016 il governo centrale cinese è impegnato a risanare il settore dell’estrazione delle terre rare pesanti a fronte del problema delle miniere illegali e dell’impatto sull’ambiente e la salute pubblica devastante. Il governo ha quindi chiuso molte delle miniere del principale polo estrattivo di Ganzhou nella Provincia dello Jiangxi.

E proprio dal 2016 le importazioni di terre rare dal Myanmar sono aumentate in modo esponenziale. Da meno di 5mila tonnellate nel 2016 si è passati a oltre 35mila nel 2021, per un valore stimato a più di 780 milioni di dollari. Una crescita così rapida è stata anche resa possibile dal trasferimento di 16mila operatori del settore da Ganzhou al Kachin per avviare e gestire le nuove miniere. In ciascuna, che impiega tra le 30 e le 100 persone, circa la metà dei lavoratori sono cinesi (è sempre la milizia del comandante Zakhung Ting Ying che fornisce loro i permessi di lavoro) e occupano i ruoli più qualificati. Ha contribuito anche alla crescita vertiginosa la fornitura da parte di aziende cinesi di grandi volumi di reagenti chimici necessari all’estrazione delle terre rare, come solfato di ammonio, acido cloridrico, soda caustica, acido nitrico e idrato di ammonio.

Sul piano ambientale e sociale le osservazioni sul campo e le interviste ai minatori raccolte da Global Witness descrivono un metodo di estrazione che consiste nel disboscare il fianco della montagna; nel perforarlo in più punti introducendo in ciascun buco un tubo di Pvc per iniettare una soluzione di solfato di ammonio che rende la terra liquida; nel raccogliere la soluzione che percola alla base in una vasca aperta di raccolta color ciano, dove i minerali si depositano gradualmente sul fondo. Una volta completato il processo di lisciviazione, il sito è abbandonato e i minatori si spostano in un nuovo sito dove applicano l’identica procedura. L’impatto sull’ambiente e sulla salute delle comunità locali e dei minatori è devastante.

Il disboscamento non porta solo erosione e instabilità del terreno, con conseguente aumento delle frane, ma anche alla scomparsa degli uccelli e degli animali selvatici di una foresta ricca di biodiversità che accoglieva specie a rischio d’estinzione come il panda rosso e il gibbone. Gli abitanti della regione soffrono di problemi respiratori e gastrointestinali, di osteoporosi, e di disturbi agli occhi e alla pelle causati dalle sostanze chimiche rilasciate dalle vasche di lisciviazione nell’aria, nel suolo e nell’acqua. E hanno smesso di pescare, nuotare e lavarsi nei fiumi della regione. I commercianti cinesi con cui avevano l’abitudine di lavorare non acquistano più i prodotti coltivati in prossimità delle miniere: il cardamomo nero, le mele cotogne, le arance e le noci. Ma ciò che li preoccupa di più è il fatto che le infiltrazioni dalle vasche di raccolta contaminate si versino nel N’Mai Kha, tributario del più importante fiume del Paese, l’Ayeyarwady, lungo il quale vivono 36 dei 54 milioni di abitanti del Myanmar.

Un camion carico di solfato di ammonio in una delle miniere raccontate nel report di Global Witness © GW

Tutti questi problemi sono noti. Fino agli anni Ottanta, gli Stati Uniti erano il principale produrre di terre rare. La miniera di Mountain Pass nel deserto del Mojave in California era la principale fonte di terre rare al mondo. Ma le frequenti fuoriuscite di residui tossici dalla condotta che univa il bacino d’evaporazione all’impianto di separazione (40 versamenti in meno di dieci anni che hanno rilasciato nell’ambiente quasi tre milioni di litri di fanghi tossici) contaminarono la falda acquifera e portarono alla chiusura dei bacini nel 1987. Dotata di nuovi bacini, la miniera riprese a operare, ma nel solo 1996 la condotta si ruppe undici volte versando quasi un milione e mezzo di litri di fanghi contaminati da metalli pesanti e scorie radioattive. Nel 1997 la miniera smise di funzionare e nel 2002 fu chiusa definitivamente. Nel frattempo la Cina era diventata il principale produttore di terre rare al mondo e gli Stati Uniti ebbero così la possibilità di esternalizzare lì tutti i problemi legati all’estrazione e alla separazione. Una ventina d’anni dopo la Cina si trova di fronte agli stessi enormi problemi ambientali e di salute pubblica. Il costo del risanamento delle sole miniere di Ganzhou è stimato a circa 5,5 miliardi di dollari e il tempo necessario per la rigenerazione a 100 anni. E la Cina, come in precedenza gli Stati Uniti, sceglie la via dell’esternalizzazione della produzione delle terre rare in Myanmar.

Poiché Pechino non controlla solo la raffinazione delle terre rare ma anche la produzione di magneti permanenti che necessitano in particolare di Dysposium e Terbium, è per l’Ong “molto probabile” che le terre rare estratte in Myanmar siano presenti nelle tecnologie alla base della transizione energetica: nelle turbine eoliche prodotte da General Electric, Goldwind Technology o Siemens Gamesa; nei motori elettrici realizzati da Bosch, BYD, General Motors, Nio, Tesla o Volkswagen; nei dispositivi elettrici prodotti da Gree Electric, Midea o Mitsubishi Electric.

Essendo praticamente impossibile costruire un futuro a basse emissioni di CO2 senza terre rare, non è concepibile che la loro estrazione passi da una zona di sacrificio all’altra, seminando sofferenza, distruzione e alimentando corruzione. È necessario che tutte le aziende della filiera, da chi gestisce le miniere a chi produce e utilizza nei suoi prodotti terre rare, assumano le proprie responsabilità; che la comunità internazionale e gli Stati nazionali vincolino la concessione di permessi d’estrazione a condizioni severe, sul piano sociale ed ambientale; mantengano un controllo continuo e puntuale del rispetto delle normative; e garantiscano la tracciabilità della provenienza delle terre rare, e dei loro derivati, al momento dell’importazione e dell’esportazione. Oltre a questi tre aspetti, nel suo rapporto Global Witness raccomanda che il prezzo delle terre rare rifletta i costi sociali ed ambientali della loro estrazione, che il riciclo delle terre rare sia ottimizzato, che la progettazione introduca alternative alle terre rare e ne riduca l’utilizzo.

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