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“Wire”, il progetto che indaga la Resistenza “plurale” delle donne contro il nazifascismo

Ottant’anni dopo la Liberazione, “Women in Resistance”, coordinato dall’Università autonoma di Barcellona, vuole porre il ruolo delle donne al centro delle narrazioni storiche sulla lotta ai totalitarismi in Europa, per contribuire a rimodellare la memoria e restituire valore al loro impegno. Quattro Paesi coinvolti (Italia, Spagna, Polonia e Grecia) e decine di preziose biografie. Nella rete c’è anche la Scuola di Pace di Monte Sole
“Vogliamo che si sappia delle donne partigiane. Siamo sorelle, spose, madri, donne come tutte le donne del mondo. Noi non siamo le vivandiere di un allegro esercito di predoni e di avventurieri, ma dividiamo con loro tutti i disagi. Quando la sera ci avvolgiamo nella nostra coperta sulla paglia della nostra baita, accanto ai nostri fratelli, prima che gli occhi si chiudano nel pesante sonno della stanchezza, i nostri discorsi sono discorsi di tutta la gente libera, amante della libertà”.
Nel gennaio 1945, pochi mesi prima della fine della Seconda guerra mondiale, sul foglio clandestino Noi Donne, le donne che presero parte alla Resistenza si rappresentavano così, coscienti del proprio ruolo e della propria scelta.
A distanza di ottant’anni, il progetto europeo “Wire” mira a porre il ruolo delle donne -sia come agenti sia come vittime- al centro delle narrazioni storiche sulla liberazione dai totalitarismi in Europa, per contribuire a rimodellare la memoria e restituire valore al loro impegno.
Le attività di “Wire”, che sta per “Women in Resistance”, si estendono su quattro Paesi (Italia, Spagna, Polonia e Grecia) con una durata di due anni: capofila del progetto è l’Università autonoma di Barcellona, insieme alla Scuola di Pace di Monte Sole, l’Archivio di Storia sociale contemporanea, Memorial Dèmocratic e Associazione Villa Decius.
Insieme è stato creato il Repository on female Resistance, un nuovo archivio di biografie della Resistenza femminile messe insieme da storici e storiche contemporanee. A partire da lì è stata delineata la Memory route, che ha coinvolto 40 studenti e studentesse universitarie nell’individuazione di nuove modalità per raccontare queste storie, tra cui podcast, giochi da tavolo, videogame. In Italia, il lavoro si è concentrato sulle biografie di 15 donne che hanno fatto la Resistenza nelle modalità più svariate.
“I buchi nella documentazione sono tanti, ancor di più quando si parla di donne -spiega la dottoranda dell’Università di Pisa Teresa Catinella, che ha preso parte alla ricerca-. Spesso è difficile rintracciare anche solo il loro vero nome, perché vengono schedate con il cognome del marito. Ricostruire le loro biografie e le pratiche di resistenza che hanno messo in atto è ancora più complesso. C’è anche una questione di classe: quando si parla di donne povere, le informazioni sono ancora meno. È stato così per le sorelle Sparta e Lea Trivella, staffette partigiane che non sono presenti nel Casellario politico centrale, dove venivano catalogati i cosiddetti ‘sovversivi’: si trovano però alcuni dettagli sulle loro vite nel fascicolo del padre e del compagno di una delle due”.
Il primo atto di resistenza femminile, in un’accezione estesa di “resistenza civile”, avviene all’indomani dello scoppio della guerra, quando gli uomini vanno a combattere. Le donne vengono lasciate sole a gestire la casa, lottare contro il carovita e garantire la sopravvivenza dei bambini e degli anziani. Sono costrette così a uscire dalla sfera privata, a far sentire la propria voce con scioperi e manifestazioni: in queste azioni comuni, anche coloro che fino ad allora erano state escluse dalla sfera pubblica cominciano a maturare una loro coscienza politica.
“Le donne sono state molto attive all’interno della Resistenza, anche se solo poche hanno scelto di imbracciare le armi -spiega Roberta Mira, storica della Resistenza dell’Università di Bologna che ha partecipato al progetto-. Questo non significa che il loro ruolo non fosse indispensabile: erano loro a prendersi carico di tutte quelle attività che oggi vengono definite di ‘logistica’ militare, come cercare le basi per i gruppi partigiani, trasportare armi, esplosivi, ordini, distribuire la stampa clandestina. E poi c’era chi si metteva a disposizione come infermiera, in brigata ma anche in paese, chi cuciva le calze e le sciarpe per i partigiani, chi si occupava della raccolta dei viveri e degli indumenti. Erano mansioni fondamentali, molto delicate e rischiose, che necessitavano di persone capaci e fidate. Anche perché i pericoli per le donne erano più alti: essere scoperta significava non solo rischiare di essere arrestata, deportata, uccisa, ma anche stuprata”.
Nella relazione riguardo il loro contributo alla Resistenza, scritta a quattro mani nel dopoguerra, le stesse Sparta e Lea Trivella scrissero: “Il ‘sesso debole’ veniva di rado fermato dalla polizia e perquisito in tutti gli angoli della persona come sovente avveniva per gli uomini. […] I trasporti si facevano in generale, riempendo il seno di armi, quando queste erano piccole, oppure con un sacco da spesa mettendoci sopra delle patate o altri generi alimentari; quando si trattava poi di grosse armi il modo migliore era quello di metterle nella carrozzella del bimbo con sopra il materassino e il relativo pargolo”.
Emerge così un concetto di resistenza plurale, fatta di una molteplicità di pratiche, dalla lotta armata fino alla resistenza civile. Resistere significava nascondere una pistola sotto un bambino nella carrozzina, infilare una lettera sotto i vestiti, curare i feriti. Oppure come fece Fernanda Wittgens, la prima direttrice donna della Pinacoteca di Brera, salvare prigionieri politici e gli ebrei, ma anche mettere in salvo le opere d’arte.
“Abbiamo provato a non mitizzare queste figure: non erano persone eccezionali, erano donne che hanno fatto una scelta -spiega la storica Mariachiara Conti, collaboratrice dell’Istituto storico della Resistenza di Parma, che ha preso parte alla ricerca–. Abbiamo cercato di restituire il contesto in cui vivevano, la dimensione della guerra e della Resistenza. L’approccio biografico è interessante perché riesce a tenere insieme le storie personali e le dinamiche più ampie, di lungo periodo. Dopo la Liberazione, molte di loro ritornarono alla vita di prima e non fecero più politica. Pensiamo a Marcella Ficca, moglie del medico del carcere Regina Coeli di Roma, che riuscì a far evadere Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e altri cinque prigionieri politici, e poi tornò alla sua vita borghese. È nei piccoli gesti che ognuna fece la sua scelta”.
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