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L’imperativo di Ella Keidar Greenberg, che ha scelto di non arruolarsi nell’esercito israeliano

Un ritratto di Ella Keidar Greenberg © Micol Meghnagi, Velania A. Mesay

Mentre il mondo guarda le macerie di Gaza e il grido umano dei palestinesi sembra cadere nel vuoto, Ella Keidar Greenberg -diciott’anni, ebrea transgender, una condanna militare, un libro di Marx sotto il braccio- sceglie il rifiuto. Il suo “No” è lucido, scomodo, politico. Necessario. L’11 aprile è uscita dal carcere militare dopo trenta giorni trascorsi in isolamento. L’abbiamo incontrata

Ella Keidar Greenberg è uscita dal carcere militare l’11 aprile dopo trenta giorni trascorsi in isolamento. Il reato: essersi rifiutata di arruolarsi nell’esercito israeliano. Ma la libertà potrebbe essere solo momentanea. 

Spesso l’esercito impone agli obiettori di coscienza -i refusenik- una serie di condanne successive, prima di concedere loro un vero rilascio. Il servizio militare in Israele è obbligatorio per tutti i cittadini ebrei e drusi maggiorenni. Tuttavia, esistono esenzioni specifiche come quella concessa ai cittadini palestinesi di Israele, mentre è in corso una battaglia politica e legale sulla storica esenzione per gli ebrei ultraortodossi. 

In questi mesi, l’apparato militare ha indurito le proprie sentenze verso chi rifiuta di imbracciare le armi. Si pensi a Itamar Greenberg, liberato solo all’inizio di aprile dopo aver trascorso 197 giorni in una prigione militare, tra le pene più lunghe inflitte a un obiettore di coscienza negli ultimi anni

Keidar Greenberg è la decima adolescente israeliana dall’inizio della guerra a Gaza ad essere incarcerata per essersi pubblicamente opposta alla leva obbligatoria, ed è la prima refusenik apertamente transgender dal 2016. Il 19 marzo ha dichiarato il suo rifiuto davanti al centro di reclutamento militare di Tel Hashomer, nei sobborghi di Tel Aviv: “Di fronte a una realtà di sterminio di massa, di negligenza sistematica, di calpestio dei diritti, di guerra, l’imperativo è il rifiuto. Quando i nostri nipoti ci chiederanno che cosa abbiamo fatto durante il genocidio di Gaza, se abbiamo chinato il capo o se abbiamo resistito, come vorreste poter rispondere? Io so che cosa risponderò: che ho scelto di resistere. Ed è per questo che dico no”. 

Quel giorno a sostenerla c’erano attivisti ebrei e palestinesi della rete degli obiettori di coscienza Mesarvot, del Radical Bloc, della Lega comunista giovanile e palestinesi cittadini di Israele. “Affinché lo status quo continui a funzionare, le persone sono tenute a svolgere i ruoli del sistema, come ingranaggi di una macchina ben oliata -ha detto da un microfono ricoperto di adesivi in ebraico e in arabo- dobbiamo lavorare, arruolarci nell’esercito, uccidere, sposarci, formare una famiglia e avere figli che continueranno a servire l’occupazione, il capitalismo e il patriarcato. Questa è la logica che le persone trans e i refusenik mettono in discussione. Ed è proprio per questo che facciamo paura: perché il sistema attuale si regge sulla nostra disciplina e obbedienza. Quando smettiamo di seguire le regole, mettiamo in crisi la sua stessa esistenza”. 

In carcere, Keidar Greenberg ha portato con sé “Il Capitale” di Karl Marx e alcuni classici della letteratura, tra cui “Nostra Signora dei Fiori” Jean Genet e “Narciso e Boccadoro” di Hermann Hesse, che le sono stati confiscati. Inoltre, le è stato impedito di portare con sé i suoi farmaci, compresi gli ormoni

“Prima o poi la società israeliana dovrà affrontare una verità scomoda: che tuo figlio, tuo padre, o tu stesso potreste morire in una guerra che sta trascinando il Paese verso l’isolamento internazionale e il collasso economico. Mentre il mondo parla apertamente di genocidio, il governo taglia il welfare e dirotta i fondi verso i coloni. Questo sistema, oltre a distruggere la vita dei palestinesi, danneggia anche quella degli ebrei israeliani”. 

Incontriamo Keidar Greenberg in un bar affollato nel cuore di Tel Aviv, nei pressi della Left bank comunista, la sede giovanile del partito arabo-ebraico Hadash. “Non penso esista un modo per vivere in questa terra senza avere paura. Siamo cresciuti dentro un trauma collettivo: siamo figli e nipoti di esuli, profughi, sterminati e sopravvissuti. Ma quello stesso trauma, lo Stato lo utilizza per creare un nemico permanente: i palestinesi”, racconta, con un caffè bollente tra le mani e un sorriso amaro a mezza bocca. 

“Essere una donna transgender e rifiutare l’esercito sono due modi diversi di dire no. Un no al sistema che decide chi devi essere, un no al sistema che ti dice chi devi odiare. Ho fatto coming out come persona transgender a 14 anni, poi ho trovato il ‘Manifesto del Partito comunista’ nella biblioteca di mia nonna. Era il periodo del lockdown, durante la pandemia da Covid-19. Per due anni ho letto, tutto il giorno, ogni giorno. Sentivo che il mondo era in frantumi e io non potevo farci nulla”. 

Poi, nel 2023, sono iniziate le proteste contro la riforma giudiziaria. “È lì che ho trovato una via d’uscita: l’azione. Ho incontrato altri giovani e insieme abbiamo creato il Radical Bloc, un gruppo che si inserisce all’interno delle manifestazioni mainstream con un’identità autonoma e radicale, composto da ebrei e palestinesi cittadini di Israele, uniti nella richiesta per la fine dell’occupazione militare e per l’uguaglianza di tutte le persone che vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. Sapevo che avrei rifiutato la leva a qualsiasi costo”. 

“La solidarietà è una pratica concreta. Tra il 2023 e il 2024 ho trascorso alcuni mesi in Cisgiordania, al fianco dei nostri partner palestinesi. In particolare, a Masafer Yatta e nel villaggio comunista di Farkha, entrambi situati nell’area C. Quello che ho visto –continua- sono terre usurpate, sorgenti d’acqua confiscate, case demolite. Non si tratta di eccezioni, né di effetti collaterali. È la normalità dell’occupazione: una violenza quotidiana, sistematica, che oggi si intensifica con sempre maggiore velocità”. 

L’area C della Cisgiordania, che costituisce circa il 60% del territorio palestinese, è sotto pieno controllo militare e amministrativo israeliano. Laddove, secondo gli Accordi di Oslo, sarebbe dovuto nascere un futuro Stato palestinese, oggi avanzano impunite l’espansione coloniale e la pulizia etnica. 

Dal 7 ottobre 2023 la violenza dei coloni armati ha raggiunto picchi che ricordano quelli della seconda Intifada. Secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, almeno 21 villaggi palestinesi sono stati sfollati con la forza. “In linea con questo approccio -si legge in un rapporto pubblicato all’inizio di quest’anno dalla stessa organizzazione- il regime israeliano ha intensificato l’oppressione dei palestinesi in Cisgiordania, adottando misure sempre più estreme: violenza arbitraria contro civili, allentamento della politica sul fuoco aperto, restrizioni di movimento, cancellazione dei permessi di ingresso, limitazioni all’accesso alle terre agricole, arresti di massa e la trasformazione dei centri di detenzione in una rete di campi di tortura”. Una strategia che -conclude l’organizzazione- mira a una gazificazione della Cisgiordania. 

“Essere sul campo non ha cambiato la mia decisione sulla leva: l’ha solo rafforzata. Non era più soltanto una questione di principio. Ho iniziato a provare rabbia, dolore, un senso di ingiustizia feroce”. 

Oggi, mentre dai grattacieli di Tel Aviv sventolano le bandiere arcobaleno, Keidar Greenberg parla apertamente di pinkwashing -o kibus, come viene chiamato in ebraico- e dell’uso strumentale della visibilità queer da parte dello Stato per occultare le violenze dell’occupazione. 

“Per me, come persona transgender, la libertà non significa avere il diritto di opprimere gli altri. L’esercito israeliano, come ogni esercito al mondo, non si interessa davvero delle persone trans, né dei gay, delle lesbiche o delle persone queer. L’esercito offre condizioni migliori alle persone Lgbtq+ solo per attirarle e utilizzarle come strumento di pubbliche relazioni”. 

Un meccanismo volto a “neutralizzare la comunità queer, trasformandoci in omonazionalisti invece che in queer antinazionalisti”. E continua: “Dietro lo slogan paradiso gay si nasconde una realtà fatta di discriminazione, soprattutto per le persone palestinesi, invisibili, oppresse, doppiamente marginalizzate e fuori dal racconto ufficiale. Se si preoccupassero davvero dei palestinesi queer, li ascolterebbero, li sosterrebbero invece di bombardare le loro città, per poi usare le loro vite come uno strumento retorico a buon mercato. In ogni caso, anche i conservatori e gli omofobi subiscono l’oppressione, e di fronte a tali atrocità, noi siamo comunque al loro fianco, perché ci battiamo per un futuro dignitoso per tutte le persone che vivono in questa terra”. 

Secondo l’organizzazione Beit El Meem, che si occupa dei diritti della comunità Lgbtq+ araba, decine di palestinesi queer e trans chiedono rifugio in Israele o in Paesi terzi dopo essere stati minacciati di morte o allontanati dalle proprie comunità. “Ma anche quando trovano accoglienza, spesso finiscono in una sorta di limbo giuridico e sociale: invisibili, privi di documenti, marginalizzati. Non possono tornare a casa, ma neppure vivere liberamente in Israele. Sono fantasmi in un sistema che li tollera solo quando può usarli -spiega Keidar Greenberg-. Anche noi, ebrei Lgbtq+, non abbiamo pieni diritti. La nostra esistenza viene strumentalizzata per costruire una falsa immagine di progressismo”. 

Le proteste contro il pinkwashing israeliano non sono certamente una novità, ma in questi anni hanno assunto un’urgenza senza precedenti, anche a causa della presenza di omofobi dichiarati nella coalizione di governo. Tra questi, Avi Maoz, leader del partito ultraconservatore e anti-Lgbtq+ Noam, affiancato dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. “Oggi, lo Stato di Israele pubblica sui propri canali social contenuti che celebrano le parate, parla di amore, uguaglianza, accettazione, mentre la maggioranza di governo marginalizza le persone ebree trans e queer e ricatta quelle palestinesi”. 

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