Diritti / Attualità
Diritto all’acqua e ruolo dei popoli indigeni: i grandi assenti alla Conferenza Onu
Nelle conclusioni del grande appuntamento organizzato dalle Nazioni Unite a fine marzo hanno trovato ampio spazio le questioni economiche e di sfruttamento delle risorse idriche. I movimenti sociali sono rimasti invece ai margini della discussione. Un errore, come ci spiega il Relatore speciale per il diritto all’acqua Pedro Arrojo-Agudo
Il diritto umano all’acqua non ha trovato spazio nelle conclusioni ufficiali della Conferenza della Nazioni Unite sull’acqua di fine marzo 2023, il cui focus si è concentrato invece su tematiche finanziarie e vie tecnologiche relative alla gestione delle risorse idriche. Una concezione che tratta l’acqua più come una merce che come un diritto. Mentre i movimenti sociali, che non hanno potuto partecipare alle plenarie della Conferenza, riservate solo ai governi, hanno però fatto sentire la propria voce per chiedere uguaglianza di diritti nell’accesso alle risorse idriche attraverso due documenti redatti negli eventi collaterali.
La Conferenza come detto si è svolta a New York dal 22 al 24 marzo 2023 ed è stata definita dalle Nazioni Unite “l’evento sull’acqua più importante di una generazione” dal momento che è caduta a metà del Decennio internazionale per l’azione “Acqua per lo sviluppo sostenibile”, dichiarato dall’Assemblea generale dell’Onu in occasione della Giornata mondiale del 22 marzo 2018.
Altreconomia ha intervistato Pedro Arrojo-Agudo, professore emerito di Analisi economica all’Università di Saragozza, in Spagna, vincitore del Goldman environmental prize nel 2003 e attuale Relatore speciale dell’Onu per il diritto umano all’acqua, proprio per fare un bilancio della tre giorni di New York.
Professor Agudo si ritiene soddisfatto delle conclusioni della Conferenza?
PAA Il fatto stesso che si sia svolta è molto positivo: dopo quasi mezzo secolo dalla Conferenza a Mar del Plata, in Argentina, che ha riconosciuto per la prima volta il diritto umano all’acqua, l’Onu è tornata a parlare di questo tema. A maggior ragione alla luce del periodo di crisi idrica globale che stiamo affrontando, con ondate di siccità, fiumi prosciugati ed estati sempre più calde. Tuttavia, nel Social forum “Water for human rights and sustainable development” che si è svolto a Ginevra nel novembre 2022 e che abbiamo promosso come Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, avevamo elaborato due proposte che non sono state però tenute in considerazione nella Conferenza di marzo. La prima era quella di adottare un approccio improntato alla protezione del diritto umano universale di accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, la seconda chiedeva di dare spazio nelle discussioni alla partecipazione dei movimenti sociali.
Nelle prime bozze del programma della Conferenza di New York non erano stati nemmeno previsti interventi che trattassero dei diritti umani in relazione all’acqua e l’apertura alla partecipazione sociale era assente: temi che sono stati introdotti dopo il Social forum, anche se in posizione secondaria. I rappresentanti della società civile non hanno avuto modo di intervenire nelle sessioni istituzionali e le loro proposte, ad esempio in materia di gestione comunitaria delle risorse idriche, non sono state prese in considerazione nelle conclusioni finali delle plenarie. Il diritto umano all’accesso sicuro all’acqua non è stato citato nemmeno nell’intervento conclusivo del Segretario generale della Conferenza, Csaba Kőrösi. Trovo frustrante che certi temi vengano ancora messi ai margini anche dalle Nazioni Unite.
Perché non c’è stata la partecipazione sociale che era necessaria in un evento simile?
PAA Un grosso limite è che molti dei leader dei movimenti sociali, tra cui anche i rappresentanti delle popolazioni indigene, non hanno potuto partecipare perché non era possibile intervenire da remoto. L’Onu ha tutti i mezzi per renderlo possibile, perché allora non l’ha fatto? Penso che non sia una questione ideologica ma piuttosto burocratica: le Nazioni Unite danno spazio soprattutto ai governi ma non alla società civile e anche per chi era stato “accettato” agli eventi collaterali non è stato così facile partecipare. Non tutti infatti hanno la possibilità di prendere un volo per New York. L’obiettivo principale di una conferenza di questo tipo, però, deve essere quello di incontrare le persone e sentire che cosa hanno da dire ai governi, non il contrario. Un altro grande errore è stato avere escluso le municipalità e gli operatori pubblici: l’Onu li considera parte delle entità statali, senza tener conto invece che sono i principali responsabili e gestori, in modo autonomo, delle reti e dei servizi idrici. Solo Aqua publica europea, in quanto associazione degli operatori idrici pubblici europei, ha partecipato ad alcuni eventi collaterali al di fuori delle plenarie.
Qual è stata l’impronta delle discussioni che si sono tenute nelle plenarie?
PAA La Conferenza non si è concentrata sul diritto all’acqua e ai servizi igienico-sanitari perché il focus era trovare delle idee innovative e tecnologiche per risolvere dei problemi delle attività economiche, sia in agricoltura sia nell’industria. Più in generale il dibattito si è concentrato sull’uso dell’acqua per il business, sulle soluzioni e sulle alternative tecnologiche; mentre il tema della governance è rimasto ai margini. A mio avviso è stato un enorme limite.
La Conferenza si poneva come obiettivo la redazione della “Water action agenda”, che dovrebbe raccogliere tutti gli impegni da parte dei diversi settori, industrie, parti interessate e nazioni su azioni concrete che aiutino a realizzare il sesto Obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030: “Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie”. Come pensa che potrebbe andare la discussione delle proposte presentate?
PAA Nel discorso finale della sessione di chiusura, la presidenza dell’Assemblea generale ha accolto sei o sette proposte, sulle centinaia che ha ricevuto, che poi finiranno nella “Water action agenda”. Tuttavia, ancora una volta, la priorità sembra essere quella di trovare nuove opzioni tecnologiche per affrontare i problemi degli usi economici dell’acqua. Possiamo aprire un confronto su come avviare processi più virtuosi in questi ambiti, ma l’attenzione delle Nazioni Unite deve essere innanzitutto rivolta ai due miliardi di persone che non hanno accesso all’acqua potabile, ai quattro miliardi privi di servizi igienici di base a cui deve essere data una risposta. Il sesto obiettivo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile non riguarda infatti il business delle miniere o quello delle nuove tecnologie ma si concentra sui diritti (negati) di quei miliardi di persone che ho citato. E non c’è stato nulla al riguardo nella Conferenza, nemmeno una menzione negli interventi principali, tranne che fortunatamente nel discorso del Segretario generale, António Guterres.
Il tema dell’acqua bene comune non privatizzabile è emerso durante la Conferenza?
PAA Per la prima volta è stato introdotto il concetto di ciclo dell’acqua come bene comune globale. Apparentemente questo potrebbe avere conseguenze positive nella concezione del valore sociale dell’acqua ma penso sia necessario un chiarimento, perché potrebbe anche averne di pericolose. Dietro questa definizione c’è un chiaro riferimento al cambiamento climatico e al suo impatto sul settore idrico, che deve essere affrontato collettivamente come parte di un’economia globale. L’assunto di base è corretto: devono essere messe in atto strategie di mitigazione adeguate e di larga scala. Tuttavia, penso che la gestione dell’acqua debba adottare un approccio ecosistemico partecipativo legato ai territori, così come le strategie di adattamento, visto che gli impatti e le conseguenze climatiche sono diverse da luogo a luogo.
Per capirci, la desertificazione nel Sahel è diversa dal degrado forestale in Amazzonia. Il cambiamento climatico è un problema globale, mentre la gestione dell’acqua è una questione territoriale. Al momento, in qualità di Relatore speciale chiedo quindi di chiarire questa nuova definizione, anche perché è legata al dibattito sul riconoscimento dell’acqua come bene comune. Cosa anche che deve avvenire presto, come ha precisato lo stesso Segretario generale dell’Onu Guterres. I due concetti non possono essere in contrasto, l’acqua infatti deve essere considerata un bene accessibile a tutti, ma non appropriabile da nessuno.
Lei ha potuto ascoltare agli interventi dei diversi movimenti sociali e delle popolazioni indigene? Come ha percepito l’atmosfera fuori dalle sale “istituzionali”?
PAA Ci sono stati molti eventi collaterali e quattro eventi speciali. Questi ultimi sono stati introdotti sotto la pressione dei movimenti sociali e delle popolazioni indigene, la cui partecipazione è stata molto importante e dove hanno, per esempio, condiviso le loro conoscenze sugli ecosistemi acquatici da cui dipendono e modelli comunitari di gestione idrica. In generale il dibattito è stato molto vivo, segnando un grande contrasto tra i discorsi ufficiali e le voci dei cittadini riguardo questi temi. Ma l’evento più significativo, che forse rimarrà come riferimento storico, è stata la firma e la presentazione alla vigilia della Conferenza del Manifesto per la giustizia idrica, frutto per la prima volta di una coalizione tra movimenti sociali e le principali Organizzazioni non governative, con il sostegno dei principali leader indigeni. Un altro risultato, indiretto della Conferenza, è stata la Dichiarazione dei popoli indigeni, approvata dai rappresentanti delle sette regioni socio-culturali indigene pochi giorni dopo dell’inizio della conferenza.
Si tratta di due documenti importanti, perché esprimono la posizione dei difensori dell’acqua, che chiedono di essere presi in considerazione nel dibattito pubblico in quanto detentori di diritti (rights holder) e non semplici portatori di interessi (stake holders). Spesso si parla di dialogo con le parti interessate, ma chi poi prende la parola? Coloro che hanno abbastanza soldi per volare a New York. Ora invece i detentori di diritti stanno bussando alle porte delle Nazioni Unite per chiedere: “Possiamo entrare e collaborare con voi?”.
È una questione molto importante che, a mio avviso, deve essere tenuta in considerazione in futuro, e in questo senso sono soddisfatto degli esiti della Conferenza: non tanto per i risultati formali ma per il coinvolgimento di tante persone che hanno rivendicato il proprio diritto a partecipare al dialogo e lavorare congiuntamente con l’Onu. Noi abbiamo bisogno delle Nazioni Unite, certo, ma le Nazioni Unite hanno bisogno di noi. Credo che l’Onu necessiti di riforme democratiche, per aprire le porte a questo tipo di partecipazione sociale, e che con essa si rafforzerà.
Qualcosa di positivo è dunque emerso da questa Conferenza, soprattutto a livello di spunti per il futuro?
PAA Ho potuto parlare con molte di quelle persone inascoltate e spesso invisibili ma che si battono di più per uno sviluppo sostenibile. Sono titolari di diritti ma non hanno ancora il giusto spazio per esprimerli. Mi auguro che che la prossima volta, ad esempio, prima del summit sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile di settembre 2023, o al summit sul Futuro nel 2024, si possa cogliere l’occasione di riflettere su altri tipi di priorità anche viste le nuove coalizioni emerse in questa Conferenza. Ecco forse loro potrebbero fornire una spinta diversa all’interno dell’Onu.
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