Diritti / Intervista
Perché è fondamentale processare in Europa i foreign fighters reclusi in Siria e in Iraq
Intervista ad Ali Aydin, legale di Francoforte che si occupa di difendere in tribunale presunti terroristi affiliati a Isis: “Non possiamo mettere da parte i nostri valori costituzionali”. Ma gran parte degli Stati dell’Ue si oppone ai rimpatri
In Germania si è guadagnato la fama di avvocato dei terroristi. Da cinque anni Ali Aydin, legale di Francoforte, si occupa esclusivamente di difendere in tribunale presunti islamisti, tra cui i cosiddetti foreign fighters di ritorno, ovvero cittadini tedeschi rientrati in Germania dopo un periodo trascorso in Siria o Iraq tra le fila dello Stato islamico. Dopo la sconfitta territoriale del califfato, Ali Aydin è diventato un punto di riferimento per i molti foreign fighters di nazionalità tedesca detenuti in Siria e Iraq, che direttamente o attraverso le loro famiglie lo contattano per chiedergli assistenza legale per poter essere rimpatriati. La Germania è tra i Paesi europei con il più alto numero di cittadini partiti per unirsi al califfato: oltre 960, secondo alcune stime. Di questi circa 260, di cui la metà minori, sono oggi detenuti in carceri e campi di detenzione in Siria e Iraq. Finora il governo tedesco si è limitato a rimpatriare non più di 10 bambini, per lo più orfani, considerati come il rischio minore per la sicurezza. Ma sempre più famiglie stanno iniziando a sfidare in tribunale la decisione dei loro governi di non rimpatriare i propri cittadini.
Signor Aydin, lei e la sua collega Seda Basay-Yildiz avete citato in giudizio presso il Tribunale amministrativo di Berlino i ministeri degli Esteri, degli Interni e della Giustizia? Come siete arrivati a questa decisione?
AA Con la mia collega rappresentiamo dieci persone, uomini e donne, che al momento si trovano detenute in Siria e Iraq. Alcuni di loro ci hanno contattato direttamente. In alcuni casi invece siamo stati contattati dalle loro famiglie qui in Germania, che ci hanno chiesto di aiutare affinché i loro congiunti, che sono cittadini tedeschi, possano tornare in Germania. Per il momento abbiamo avviato un’azione legale solo per due casi: uno in Siria e uno nel Kurdistan iracheno. Siamo dell’idea che la Repubblica federale tedesca sia obbligata a fare in modo che queste persone che, lo ripeto, sono cittadini tedeschi, vengano riportate in Germania. Sono le stesse autorità curde in Siria e Iraq a chiedere al governo di Berlino di rimpatriare i propri cittadini
Secondo alcune stime sono 124 i cittadini tedeschi adulti detenuti in Iraq e Siria. È innegabile che il loro rimpatrio rappresenti un rischio per la sicurezza dei loro Paesi di origine. D’altronde gli attentati terroristici registrati in Europa nel 2015 e 2016 hanno visto il coinvolgimento di foreign fighters di ritorno.
AA È così e questo è anche il motivo per cui le nostre istituzioni non vogliono attivarsi per rimpatriarle. Se stessimo parlando di una o due persone sarebbero già state rimpatriate da tempo, ma poiché sono così tante si preferisce non agire. Ma non si può argomentare affermando che sono troppi, che ci sarebbe troppo lavoro per i tribunali e per i servizi di sicurezza. Che sia uno o siano cento, se hanno commesso un reato allora devono risponderne davanti alla giustizia nel quadro di un processo che rispetti gli standard internazionali. Il che non significa che ogni cittadino che ha commesso un crimine all’estero debba essere rimpatriato. Se un tedesco commette un reato in Italia allora è un caso diverso, perché l’Italia è uno stato di diritto pieno. Ma qui abbiamo il caso specifico di questi due Paesi, Iraq e Siria. Se queste persone venissero trasferite al governo centrale di Baghdad o se il governo di Damasco dovesse prendere il controllo dei centri di detenzione oggi controllati dai curdi c’è il serio rischio che vengano condannate a morte. La Germania è tenuta secondo la Costituzione a tutelare i suoi cittadini.
Come ha giustificato finora il governo la sua decisione si non provvedere ai rimpatri?
AA Si sostiene di non poter rimpatriare i cittadini tedeschi in Siria perché non ci sono rapporti diplomatici con il governo di Damasco, mentre per quanto riguarda l’Iraq si afferma che in quanto Paese sovrano ha il diritto di giudicare in autonomia chiunque abbia commesso crimini sul suo territorio.
Non è così?
AA Bisogna differenziare e accertarsi che agli imputati venga garantito un giusto processo. Sappiamo bene che in Siria e Iraq non è questo il caso. In Siria c’è una dittatura. Tutti quelli che in Siria vengono processati per appartenenza a un organizzazione terroristica vengono condannati a morte. Anche in Iraq è in vigore la pena capitale. Diverse organizzazioni hanno documentato che i processi in quel Paese si svolgono in maniera sommaria, senza le dovute garanzie. Ora, nel caso specifico del’Iraq le persone con cui siamo in contatto sono detenute nella regione autonoma del Kurdistan iracheno e, come detto, sono le stesse autorità curde a chiedere a Berlino di rimpatriare i suoi cittadini. Il governo tedesco non può voltarsi dall’altra parte. Bisogna agire e occorre farlo in fretta. Dopo l’offensiva turca nel Nord della Siria alcuni detenuti sono fuggiti, il che significa che probabilmente non verranno mai assicurati alla giustizia. Ankara, inoltre, ha iniziato ad attivarsi per rimpatriare nei loro Paesi di provenienza, tra cui la Germania, decine di presunti affiliati dello Stato islamico catturati dal suo esercito. Avremmo potuto rimpatriarli noi direttamente dalla Siria ma non lo abbiamo fatto.
Tra gli argomenti di chi si oppone al rimpatrio c’è il fatto che è difficile inchiodare queste persone alle proprie responsabilità, perché non sempre è possibile trovare prove per crimini commessi a chilometri e chilometri di distanza. Il risultato è che spesso l’unico reato ascrivibile è quello di appartenenza a un’organizzazione terroristica; reato che in molti Paesi europei viene punito con pochi anni di carcere. Lo scorso luglio una donna tedesca che ha sposato un combattente dell’Isis è stata condannata a cinque anni di prigione.
AA Ci sono anche condanne da due o tre anni. Ma è proprio questo che caratterizza uno Stato di diritto. Dobbiamo accettare il fatto che non possiamo condannare tutti. Ma sulla base della mia esperienza, e lavoro in questo settore da alcuni anni ormai, posso dirle che non c’è un solo caso in cui qualcuno sia stato dichiarato innocente. A volte si riesce a provare di più, altre meno. Allo stesso tempo le dico che non tutti quelli che sono nelle prigioni curde devono essere condannati. Non deve essere un automatismo. Non possiamo dire che solo perché qualcuno è in una prigione curda è un combattente dell’Isis. È una tesi che può essere vera ma che in uno Stato di diritto deve essere dimostrata. Il fatto di essere stati fatti prigionieri in Siria o Iraq è un indizio ma non è una prova.
Facciamo un esempio pratico. Una donna che ha sposato un combattente dell’Isis per quale reato può essere condannata?
AA Per arrivare a una condanna bisogna dimostrare che l’indagato ha sostenuto e contribuito a rafforzare la struttura dell’organizzazione. Secondo le nuove disposizioni in materia anche solo avere cucinato o avere accudito i bambini significa avere sostenuto l’organizzazione. Va aggiunto inoltre che nei processi per terrorismo viene quasi sempre adottata la custodia cautelare. Non stiamo parlando di persone a piede libero.
Ma che cosa garantisce che dopo una pena così blanda queste persone non tornino a essere un pericolo per la società?
AA Si può usare questo argomento per tutti i tipi di crimini. Quando si rilascia un omicida dopo 15 anni di carcere non c’è alcuna garanzia che non ucciderà ancora. Quando si rimette in libertà uno stupratore dopo cinque anni di detenzione nessuno garantisce che non tornerà a delinquere. Non possiamo mettere da parte i nostri valori costituzionali perché vediamo un pericolo potenziale.
Anche per ovviare alla difficoltà di reperire prove alcuni Paesi come la Svezia hanno proposto di processare queste persone in Iraq attraverso un tribunale ad hoc. Pensa possa essere una soluzione?
AA Penso che la vera motivazione alla base di questa proposta non sia quella di facilitare la raccolta di prove, perché se ci sono prove e testimoni in Iraq questi possono sempre essere portati in Europa attraverso la collaborazione delle autorità locali ed essere usati in un processo. Penso, piuttosto, che sia solo uno stratagemma per tenere queste persone lontane dai propri Paesi. Rimpatriarle è una scelta molto impopolare.
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