Diritti / Intervista
Karem Rohana, l’“agente del caos” che sui social rompe la narrativa tossica sui palestinesi

Discendente da una famiglia di Haifa, che con la nascita di Israele ha perso tutto ed è diventata arabo-israeliana, da Firenze, racconta su Instagram con il nome di “Karem_from_haifa”, la difficile sopravvivenza dell’identità palestinese in Israele. Con l’obiettivo di sfatare la narrazione mainstream, mostrando il regime di apartheid e occupazione israeliano. Lo abbiamo intervistato
Karem Rohana è la dimostrazione di quanto possa essere complessa l’identità palestinese. Famiglia originaria di Haifa, i cosiddetti palestinesi del ’48, ma passaporto israeliano. Vive in Toscana ma su Instagram -dove ha 240mila follower- tutti lo conoscono come “Karem_from_haifa“, l’influencer palestinese. Con tutto quello che comporta, in particolare dopo il 7 ottobre 2023.
Karem, qual è la sua storia personale?
KR Nella vita faccio il logopedista. Poi qualcuno dice che sono un attivista, un divulgatore, un influencer, mi hanno chiamato in un sacco di modi. Tra tutte mi è piaciuta la definizione “agente del caos” perché un pochino era quello che volevo: prendermi lo spazio social che latitava nel parlare della causa palestinese. Questo già prima del 7 ottobre 2023 poi è diventato abbastanza pop, se così vogliamo dire, parlare di questi temi. Perché la cultura pop è l’unica che in questo momento sta resistendo un po’ alla censura. Non vedrete mai un palestinese in tv o alla radio esprimere qualcosa, nemmeno nei programmi considerati amici della Palestina, ma vedrete la narrativa per cui i palestinesi sono vittime -hanno perso un braccio, poverini, aiutiamoli- oppure sono terroristi: non c’è uno spazio grigio, non c’è l’identità politica dei palestinesi, quella che provo un pochino a rappresentare.
Ha un passaporto italiano e uno israeliano, perché?
KR Perché mia mamma è italiana e mio padre palestinese di Haifa, una città nel Nord di quella che io chiamo Palestina occupata, ma che comunemente viene chiamata Israele. Sono nato lì e quindi ho il passaporto israeliano che mi permette di subire il livello di apartheid e di occupazione un po’ più leggero rispetto a quello dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza.
Che cosa vuol dire essere quello che gli israeliani chiamano un arabo-israeliano, cioè il 20% della popolazione? In che cosa si vede l’apartheid?
KR Io ci ho vissuto solo fino a due-tre anni, perché mia mamma, nonostante avesse pianificato di starci, dopo due anni, ha detto che non avrebbe cresciuto suo figlio in quella terra e così siamo venuti in Italia. Ma sono tornato tutte le estati e sono molto legato alla Palestina. La mia quindi non è un’esperienza diretta ma conosco bene la realtà. Nel 1948, con la nascita dello Stato di Israele, c’è stata la Nakba, la deportazione di 700mila palestinesi ed è successo anche ai miei nonni: furono deportati con gli abitanti del loro villaggio. Alcuni li mandarono in Libano, altri li uccisero e altri ancora finirono nei campi profughi in Giordania. La mia famiglia apparteneva alla minoranza cristiana e per questo sono potuti tornare ma a mio nonno hanno sequestrato tutte le terre. Dicevano di avergli dato gli stessi diritti degli israeliani, ma di fatto non era vero: per esempio, mio nonno per legge non ha potuto richiedere le sue proprietà. Nel momento in cui Israele si autoproclama uno Stato degli ebrei, sta dicendo che i palestinesi sono cittadini di serie B e fa delle leggi specifiche per questo: per esempio, non puoi esporre la bandiera palestinese, non puoi commemorare la Nakba, anche se magari hai perso dei parenti. Gli unici palestinesi che Israele è riuscito a spogliare della loro identità sono proprio quelli del ’48: l’identità palestinese è rimasta qualcosa di folkloristico, dentro le cucine, dove si mangia hummus e si parla arabo ma una volta fuori devi fare il palestinese “buono”.
Cioè?
KR Da quando sono noto sui social mi arrivano minacce di morte in ebraico e non sono tanto preoccupato per me, ma per la mia famiglia. Quando vado a trovarli mi dicono: “Stai attento, se scoprono che sei nostro parente ci levano il lavoro”. C’è uno stigma sociale devastante, già da prima, ma dopo il 7 ottobre hanno arrestato molte persone che per esempio hanno commentato quel giorno sui social. C’è veramente il terrore in questo momento nella parte palestinese della cittadinanza.
Quando ha iniziato a fare l’influencer?
KR Quando Amnesty international pubblicò il report in cui diceva che Israele attuava l’apartheid verso i palestinesi a Firenze, dove vivo, vennero affissi da un’associazione dei cartelloni per un evento con Amnesty. Ma la politica fiorentina, compatta e trasversale, intervenne dicendo che lo avrebbe impedito e che era antisemitismo. E io lì ci sono rimasto, ingenuamente pensavo che il problema fosse Israele che attuava l’apartheid, così da cittadino fiorentino medio, mezzo palestinese, ho pensato: non può parlare nemmeno Amnesty? Quindi mi son messo a scrivere mail al Comune e al sindaco. Allora lavoravo in ospedale e mi sentivo lontano dalla causa palestinese, ma il punto era -ed è- che nessuna autorità poteva esprimersi contro Israele, perché Israele è prima di tutto un atto di fede. Chi lo supporta, lo fa indipendentemente da tutto, dal diritto internazionale, umanitario, dai report delle organizzazioni internazionali, che ascoltiamo per tutto, ma quando parlano di Israele no: sono antisemite. È stato allora che ho iniziato a postare, mi sono svegliato tardi ma su alcune cose non pensavo fosse così pervasiva la presa di potere.
Poi arriva il 7 ottobre, che cosa le succede?
KR Io il 7 ottobre casualmente ero in Israele e avevo l’aereo di ritorno per l’Italia. La mattina mi sveglio, leggo le segnalazioni di missili, ma non ci faccio troppo caso. Poi apro Instagram e vedo quel tizio che esce in volo da Gaza sul deltaplano. Pensavo fosse un pazzo solitario, che avrebbe fatto la fine di Icaro e invece era una faccenda più grande di quanto mi aspettassi.
Come si è sentito?
KR Emozionato, in un certo senso. All’inizio non c’erano i dettagli di che cosa stava succedendo. A livello simbolico c’era qualcuno che stava provando a rompere i cancelli di quel campo di concentramento che è Gaza. Ricordo la ruspa che li buttava giù: Gaza è un recinto per esseri umani su cui vengono sganciate tonnellate di bombe.
Perché, secondo lei, c’è stato il 7 ottobre? C’è chi ha tirato in ballo anche gli accordi di Abramo, cioè la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, da sempre voluta da Donald Trump e osteggiata da Hamas.
KR Per me il 7 ottobre fa parte di una lotta di liberazione che va avanti da 76 anni contro un regime coloniale di apartheid. La Corte internazionale di giustizia parla di un’occupazione permanente e illegale che dura da decenni e secondo il diritto internazionale si può rispondere all’occupazione anche con la resistenza armata. Poi è chiaro che anche la resistenza armata debba rispettare delle regole.
Per le sue posizioni ha subìto anche un agguato, che cosa è successo?
KR Alla fine sono tornato in Italia il 25 ottobre. Ricevevo minacce ma pensavo che le priorità in quel momento fossero altre e, invece, fuori dall’aeroporto c’erano due che mi aspettavano: mi hanno seguito e riempito di cazzotti. Ho ricevuto una prognosi di 64 giorni e fatto un intervento alla mano. I responsabili non sono mai stati presi, da quello che so delle indagini, perché sono andati all’estero.
Perché ci si dovrebbe interessare alla questione palestinese?
KR Perché è un po’ la bussola morale di dove sta andando la nostra umanità. Gli israeliani non sono dei mostri, sono esseri umani, che nascono però in una società immersa in un’ideologia deumanizzante verso i palestinesi, suprematista e colonialista. Se fossi nato a Tel Aviv e mia mamma mi avesse lasciato lì, oggi sarei a uccidere i bambini a Gaza. E voi uguale.
È ottimista sul futuro?
KR Mi è rinata un po’ di speranza che ci si svegli, che sia la fase finale del sionismo. I palestinesi non li ammazzano gli israeliani, ma il sionismo, che è un’ideologia, quella va sconfitta. Per me quando dicono “dal fiume al mare Palestina libera” non vuol dire buttare tutti gli ebrei in mare ma che non ci sia più un’ideologia basata sul suprematismo razziale, etnico e religioso e che tutti possano vivere liberi. Poi chi ha commesso crimini a Gaza spero paghi ma non è quello il punto. Bisogna andare in questa direzione. Un po’ si è iniziato a capire, moltissimo negli ambienti accademici dove anche i più strenui difensori di Israele hanno difficoltà a negare che sia colonialismo d’insediamento, genocidio e tutto il resto. La società civile si sta svegliando, vedo un cambiamento culturale. Il problema è che se ne sono accorte anche le destre mondiali, che stanno prendendo il sopravvento nei social network, nella politica e nella repressione. Perché se ci sarà un risveglio collettivo, inizieranno a togliere libertà anche a noi in modo molto diretto: hanno paura e quindi hanno iniziato a prendere precauzioni. E noi buttiamogliele giù, se riusciamo. O almeno proviamoci.
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