Diritti / Opinioni
Chi sta girando la chiave della contemporanea tirannia automatizzata?

Edward Snowden, la gola profonda che nel 2013 ha svelato il programma di sorveglianza di massa organizzato dall’agenzia di spionaggio civile degli Stati Uniti, sosteneva che la macchina della tirannia automatizzata fosse già pronta e che fossimo a un giro di chiave dal suo avviamento. Gli eventi recenti negli Usa sembrano tristemente confermare questa profezia. E in Europa? La rubrica di Stefano Borroni Barale
“Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio che scacciate i tiranni e li buttiate giù dal loro trono; basta che non li sosteniate più, e li vedrete crollare, […] come un colosso a cui sia stato tolto il basamento”. Étienne de La Boétie, “Discorso sulla servitù volontaria”, 1576.
Giorgio vive a Roma ed è un militante a tempo pieno. Fa parte di un sindacato di base della scuola, è segretario del circolo di uno dei tanti partiti della diaspora della sinistra, è femminista, appassionato praticante dell’inclusione dei suoi allievi con disabilità e non. La sua vita, a parte i rari momenti in cui riposa o in cui si dedica ai suoi genitori molto anziani, è dedicata a cercare di ricostruire quel “tessuto collettivo” in cui è cresciuto, negli anni tra il sessantotto e il settantasette, e che lo ha visto prendere parte poi, giovanissimo, al movimento ecologista e nonviolento dei primi anni 80.
La sua non è solo nostalgia: è convinto (a ragione) che solo un approccio collettivo ai nostri problemi potrà portare a uscire dalle convulsioni che sta vivendo la nostra società, soprattutto a quelle della democrazia, che osserva preoccupato.
Nonostante tutto questo, una delle mani che sta girando la chiave della nascente tirannia automatizzata di cui parlava Edward Snowden è anche la sua. Per comprenderne il motivo bisogna ricostruire alcuni eventi. Praticare la “servitù cibernetica volontaria” non è questione di stupidità o malafede, semmai di essersi persi quelli che, di primo acchito, sembrano dettagli.
Giorgio era nella seconda metà dei suoi vent’anni quando l’avvento del World wide web sembrò aver dato vita a Internet. In realtà, Internet esisteva dagli anni Sessanta e il web la stava solo rendendo un po’ più sexy. Ecco il primo importante dettaglio.
Quel cambiamento meramente “estetico” ha promosso la nascita dei primi siti “di movimento”, che replicavano via Internet dinamiche molto simili a quelle delle radio libere che avevano invaso l’etere dal 1976 in avanti, facendo sognare alla generazione precedente quella di Giorgio che l’autogestione dei media da parte del movimento studentesco, fuori dal controllo Rai, sarebbe diventata la norma. Secondo dettaglio: purtroppo quello è rimasto un sogno.
Un sogno simile è tornato a essere coltivato nei confronti del web. Gli entusiasti di quella stagione, però, hanno commesso un errore più grave del confondere il web con Internet: hanno confuso l’avvento di una tecnologia compatibile con la redistribuzione del potere con l’effettiva redistribuzione dello stesso.
Terzo dettaglio: Internet non ha mai smantellato la burocrazia degli Stati-nazione, tanto meno l’organizzazione economica capitalista, che inizialmente esce addirittura rafforzata dalla bolla delle dot-com (nel 1995).
Infatti, nei trent’anni successivi, le burocrazie statali e private hanno lavorato in sinergia alla riconfigurazione della rete, per renderla uno strumento di sorveglianza e controllo. Per questo oggi Peter Thiel, noto sociopatico di ultradestra, dopo aver promosso la “transizione al trumpismo” dei suoi techbros, ha finalmente intravisto le condizioni per realizzare il suo sogno distopico: abolire la democrazia a favore della “libertà” della Silicon Valley. Libertà di agire senza rispondere delle proprie azioni, s’intende.
Questa è la prospettiva che rende l’immagine della cerimonia di insediamento del secondo ciclo di Donald Trump, un evento da lasciare senza fiato. All’indomani, lo stesso Bill Gates (Microsoft) ha dichiarato di essere “stupito dalla svolta a destra della Silicon Valley”; una svolta suggellata dalla presenza di Google, Amazon, Meta e Apple all’evento. Microsoft era l’unica impresa della rosa “Gafam” assente, sia all’insediamento, sia al party esclusivo tenutosi proprio a casa di Peter Thiel pochi giorni prima (ma Gates aveva fatto visita a Trump nella sua residenza in Florida appena pochi giorni prima).
Forse Gates pensa che gli interessi delle aziende nate grazie al web siano meglio tutelati difendendo la Rete (com’era stato nei primi anni duemila), che non cercando di prendere tutto il potere in un colpo. I colpi di mano possono fallire mentre la strategia di diffondere un “sogno americano” in salsa cibernetica aveva fin qui trionfato. Quarto dettaglio, che potrebbe costar caro ai miliardari della Silicon Valley, una volta tanto.
Il tentativo di prendere il totale controllo dei dati “sensibili” dei cittadini americani da parte del (Department of government efficiency, Doge), sotto la guida del suo caudillo Elon Musk, è stato letto dagli analisti informatici come un vero e proprio attacco hacker portato al cuore del sistema burocratico del governo statunitense. Un colpo di Stato senza spargimento di sangue, come scrive Salvaggio su TechPolicy Press.
Stati e imprese, infatti, sono ormai completamente digitalizzati: funzionano grazie a enormi quantità di dati captati, non sempre con il consenso degli interessati. Una volta che le informazioni che ci riguardano divengono dati registrati digitalmente, qualsiasi abuso diviene tecnicamente possibile: è sufficiente un comando impartito a un terminale da un attore senza scrupoli. Il realizzarsi o meno degli scenari peggiori è questione politica. Infatti l’unica resistenza che, per ora, sta rallentando il Doge è quella legale.
In prospettiva, però, le leggi possono cambiare, soprattutto sotto spinte populiste. Per questo la società civile dovrebbe darsi come obiettivo urgente la cancellazione dei dati e lo smantellamento degli apparati atti a captarli, almeno fino a che non si sia raggiunto un nuovo patto sociale su questa nuova forma di potere, compatibile con la sopravvivenza di un sistema democratico.
È in questo senso che le mani che girano la chiave nella toppa della tirannia automatizzata sono quelle di Giorgio, quella di chi scrive, di chi legge, quella di tutte e tutti noi che abbiamo fornito e continuiamo a fornire i nostri dati.
L’errore capitale è continuare a vedere il digitale come uno strumento neutrale o -peggio- “roba da esperti, informatici o tecnici”, anche dopo che questo è stato usato ripetutamente contro di noi, in maniera così plateale. Se non si comprende questo, ogni sforzo verso una società migliore rischia di essere spazzato via dalla tirannia automatizzata, quella che riconosce i migranti con sistemi di controllo satellitari da miliardi di euro piazzati a ogni confine e ne incrocia i dati con sistemi di riconoscimento biometrici, per braccarli con una precisione di dieci metri, anche nel mezzo di un deserto. Queste tecnologie possono essere utilizzate in qualsiasi momento contro giornalisti, oppositori, semplici cittadini. Anzi, stanno già venendo utilizzate oggi, come mostra il “caso Paragon” che ha fatto emergere sistemi di sorveglianza illegale a danno di giornalisti, preti e attivisti.
Da questo punto di vista le cose in Europa vanno leggermente meglio. Nonostante il progetto ideale europeo sia naufragato in una struttura burocratica, cieca e sorda a tutto e funzionale alla finanza più che ai popoli, qualcosa si salva. La normativa sul trattamento dei dati (Gdpr) ci permette ancora di vivere l’avvento di personaggi come Trump e Musk con un barlume di speranza in più, rispetto ai cittadini americani.
È molto probabile che i nostri governi stiano, sottobanco, abusando dei nostri dati (vedasi il caso Invalsi), ma per lo meno lo stanno facendo in maniera illegale e, se provassero a usare i dati in tribunale, potrebbero vedersela brutta. Forse potremmo ripartire da questa semplice osservazione, mentre proviamo a costruire un approccio al digitale basato sull’autogestione e sulla convivialità, invece che sul sogno di controllare (magari via norme) megastrutture impossibili da controllare per design. Il futuro non è ancora scritto, a patto di cominciare oggi stesso.
Scatole oscure. Intelligenza artificiale e altre tecnologie del dominio” è una rubrica a cura di Stefano Borroni Barale. La tecnologia infatti è tutto meno che neutra. Non è un mero strumento che dipende unicamente da come lo si usa, i dispositivi tecnici racchiudono in sé le idee di chi li ha creati. Per questo le tecnologie “del dominio”, quelle che ci propongono poche multinazionali, sono quasi sempre costruite come scatole oscure impossibili da aprire, studiare, analizzare e, soprattutto, cambiare. Ma in una società in cui la tecnologia ha un ruolo via via più dispositivo (e può quindi essere usata per controllarci) aprire e modificare le scatole oscure diventa un esercizio vitale per la partecipazione, la libertà, la democrazia. In altre parole: rompere le scatole è un atto politico.
Stefano Borroni Barale (1972) è laureato in Fisica teorica presso l’Università di Torino. Inizialmente ricercatore nel progetto EU-DataGrid (il prototipo del moderno cloud) all’interno del gruppo di ricerca dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), ha lasciato la ricerca per lavorare nel programma di formazione sindacale Actrav del Centro internazionale di formazione dell’Ilo. Oggi insegna informatica in una scuola superiore del torinese e, come membro di Circe, conduce corsi di formazione sui temi della Pedagogia hacker per varie organizzazioni, tra cui il ministero dell’Istruzione. Sostenitore del software libero da fine anni Novanta, è autore per Altreconomia di “Come passare al software libero e vivere felici” (2003), una delle prime guide italiane su Linux e altri programmi basati su software libero e “L’intelligenza inesistente. Un approccio conviviale all’intelligenza artificiale” (2023).
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