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Diritti / Reportage

“Non ho mai smesso di cercare i miei figli, partiti dalla Germania per unirsi all’Isis”

Dal 2011, circa 5.300 cittadini europei sono partiti alla volta di Siria e Iraq per unirsi alle fila dello Stato islamico. Tra loro, nell’ottobre 2014, anche i figli di Joachim Gerhard -Fabian e Manuel- di 22 e 18 anni. La battaglia del padre per ritrovarli e riportarli a casa, garantendogli un giusto processo, contro l’approccio dei Paesi europei

Joachim Gerhard - © Caterina Semeraro

Joachim Gerhard, immobiliarista della cittadina tedesca di Kassel, ricorda tutto di quel giorno di fine ottobre 2014, compresi i dettagli. Tra questi la voce della sua ex moglie, che in un misto di incredulità e terrore gli comunica al telefono che i loro due figli, Fabian e Manuel, rispettivamente 22 e 18 anni, hanno preso la Bmw di famiglia e sono partiti per la Turchia per unirsi alle fila dello Stato islamico in Siria.
Da allora Joachim non ha mai smesso di cercarli e ora che è certo di essere riuscito a rintracciare Fabian, oggi 27enne, esige che il governo tedesco si adoperi per rimpatriarlo e processarlo in Germania. A questo scopo lo scorso giugno i suoi legali hanno citato in giudizio i ministeri degli Esteri, dell’Interno e della Giustizia.

La Repubblica federale, è la tesi dell’accusa, è sempre tenuta a tutelare i diritti fondamentali dei suoi cittadini, come il diritto a un giusto processo, anche all’estero. “La decisione di rivolgermi alla giustizia è arrivata dopo il mio ultimo viaggio in Siria, lo scorso aprile. Sono certo di avere riconosciuto mio figlio Fabian in un centro di detenzione gestito dalle milizie curde a Qamishli. Sono dovuto rimanere a distanza e non ho potuto parlargli ma sono certo che fosse lui”, spiega Joachim nel salotto accogliente della sua casa con piscina a Zierenberg, paese di poco più di cinquemila abitanti nei pressi di Kassel. Nella lunga battaglia per tentare di ritrovare i suoi figli racconta di essersi sempre sentito abbandonato, se non ostacolato, dalle autorità del suo Paese.

“Nel 2016 il dipartimento di sicurezza di Stato dell’Assia mi ha comunicato che Fabian e Manuel erano morti nella battaglia di Kobane, notizia poi rivelatasi falsa. Volevano che smettessi di cercare i miei figli”, spiega con un tremito di rabbia nella voce.

Ma Joachim non ha smesso e nel marzo di quest’anno riceve una chiamata anonima in cui gli comunicano che Fabian è detenuto a Qamishli. Secondo dati raccolti dall’Istituto Egmont per le relazioni internazionali circa 5.300 cittadini europei sono partiti alla volta di Siria e Iraq dal 2011. Dalla sola Repubblica federale tedesca sono partite oltre 960 persone, con un picco di 100 partenze al mese nella metà del 2014. La maggior parte di loro si è unità al gruppo dello Stato islamico. Si stima che un terzo del totale abbia già fatto ritorno in Europa, e che un altro terzo abbia perso la vita in battaglia. Dopo la sconfitta territoriale del califfato gran parte dei combattenti dell’Isis sono finiti sotto la custodia delle milizie curde nel Nord della Siria, che tuttavia non dispongono dei mezzi né tantomeno delle capacità per gestire migliaia di detenuti, tra cui centinaia di cittadini europei. Sempre secondo dati dell’istituto Egmont aggiornati a ottobre, in Siria e Iraq sono detenuti tra i 1.129 e i 1.195 cittadini dell’Ue, tra donne, uomini e bambini. Il gruppo in assoluto più numeroso è composto da cittadini francesi (130 adulti e 270-320 minori), seguito da Germania (124 adulti e 138 minori) e Olanda (50 adulti e 90 minori). Nella lista dell’istituto anche sei adulti di cittadinanza italiana.

Finora i vari Paesi europei si sono limitati a rimpatriare soprattutto bambini, per lo più orfani, considerati come il rischio minore, ma recenti sentenze giudiziarie stanno cambiando questo scenario.
A inizio novembre la Corte suprema competente per gli stati di Berlino e Brandeburgo ha respinto il ricorso del ministero degli Esteri contro una precedente sentenza che disponeva il rimpatrio dal campo di Al Hol, nel Nord-Est della Siria, di tre bambini e della loro madre. Il ministero si era opposto al rimpatrio della donna per motivi di sicurezza, ma per i giudici ha prevalso la protezione del nucleo familiare. La sentenza è inoppugnabile. Come spiega Tanya Mehra, ricercatrice presso il Centro internazionale per l’antiterrorismo (Icct) “Sia il diritto internazionale sia le leggi nazionali forniscono basi sufficienti per sfidare i governi in tribunale e dimostrare che hanno l’obbligo di avere un ruolo più attivo nel rimpatrio di queste persone”. Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 2178 (2014) e 2396 (2017), osserva la studiosa, “impongono agli Stati l’obbligo legale di assicurare i terroristi alla giustizia e sviluppare strategie appropriate per perseguire, riabilitare e reintegrare i foreign fighters di ritorno”. Nel caso specifico dei minori, inoltre, “la Convenzione sui diritti del fanciullo stabilisce che i bambini debbano essere protetti da tutte le forme di discriminazione o punizione basate sulle attività svolte o sulle opinioni espresse dai loro genitori”.

Ad oggi, tuttavia, nonostante la forte instabilità seguita all’offensiva turca nel Nord della Siria, che ha portato anche alla fuga di un centinaio di detenuti, i governi europei restano riluttanti all’idea di rimpatriare i propri cittadini dalla regione, e sembrano piuttosto valutare l’opzione di trasferirli in Iraq. Un’opzione che, spiega Anthony Dworkin, ricercatore dello European Council on Foreign Relations (Ecfr), “li esporrebbe a una precisa responsabilità legale”. Un loro ipotetico trasferimento alla giurisdizione irachena, infatti, “violerebbe la Convenzione europea per i diritti umani, che proibisce agli Stati di trasferire i propri cittadini in Paesi in cui sono a rischio di essere condannati a morte”. Un rischio molto alto in Iraq, dove la legge antiterrorismo ha un’applicazione ampia, che non fa alcun distinguo tra chi commette un’azione terroristica e chi vi partecipa, ovvero, per esempio, tra un tassista che ha lavorato per l’Isis e un combattente che si è macchiato dei delitti più gravi.

L’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw), che ha seguito da vicino i processi in Iraq a presunti combattenti dello Stato islamico, denuncia nei suoi rapporti procedimenti giudiziari brevi e pene comminate senza prove, sulla sola base di confessioni spesso estorte con la tortura. “Anche se queste persone hanno commesso gravi crimini hanno diritto a un giusto processo”, afferma Mehra. Secondo gli esperti anche la possibilità di istituire un tribunale internazionale, così come richiesto dalle stesse autorità curdo-siriane in risposta al rifiuto dei Paesi europei di rimpatriare i propri connazionali, non è una strada percorribile. Tradizionalmente, spiega Dworkin, “un tribunale internazionale si occupa di tutti i crimini commessi in una determinata area, come nel caso dell’ex Jugoslavia”. In questo caso, tuttavia, “sarebbe molto improbabile riuscire a trovare un accordo per istituire una corte che abbia giurisdizione anche sul regime siriano. Si finirebbe così con l’avere una sorta di giustizia selettiva, ovvero un tribunale che indaga sui crimini commessi dall’Isis, ignorando quelli perpetrati dalle altre parti nel conflitto”.

Che la strada del rimpatrio sia percorribile dal punto di vista logistico lo dimostrano i Paesi che hanno deciso di riportare in patria i propri cittadini. Secondo Hrw Uzbekistan, Tajikistan e Kazakhstan hanno rimpatriato 756 loro connazionali tenuti in custodia dalle Forze democratiche siriane (Sdf), mentre il Kosovo ha provveduto al rientro di 110 suoi cittadini. L’inerzia delle autorità europee, osserva Mehra, si deve soprattutto alla mancanza di volontà politica. “Rimpatriare queste persone è visto come fortemente impopolare, ma processarle in patria è l’unica opzione percorribile, non solo per garantire giustizia per le vittime, ma anche nell’ottica di una maggiore sicurezza nel lungo termine”. Per i Paesi europei, spiega la studiosa, “ha più senso avere un rimpatrio controllato piuttosto che lasciare al loro destino queste persone, che con un passaporto europeo potrebbero fare ritorno nei loro Paesi di origine, magari tra dieci anni, ancora più radicalizzate”.

Lo scorso giugno il Parlamento tedesco ha approvato un disegno di legge che consente di revocare la cittadinanza ai cittadini che si sono recati all’estero per unirsi a un gruppo terroristico. La legge non è retroattiva e può essere applicata solo a chi possiede una seconda cittadinanza. L’approccio europeo a molti problemi complessi, fa notare Dworkin, “è semplicemente quello di tenere le persone coinvolte lontane dal proprio territorio, spingendo i problemi fuori dai confini dell’Ue”. Un approccio che, argomenta lo studioso, ricorda molto la strategia di “esternalizzazione” adottata nei confronti dei migranti che tentano di raggiungere l’Europa. “Si pensa che se riusciamo a tenere queste persone al di fuori del nostro territorio allora non abbiamo alcun obbligo nei loro confronti. La differenza è che nel caso dei foreign fighters stiamo tentando di tenere lontani i nostri stessi cittadini”. Joachim guarda le foto dei suoi figli, che ricoprono buona parte delle pareti del salotto. C’è persino una foto di Fabian e Manuel che imbracciano un kalashnikov. “Me l’ha mandata Fabian dalla Siria. L’ho appesa insieme alle altre perché è l’ultima foto che ho di loro”, si giustifica. Grazie ai contatti costruiti in questi anni Joachim è riuscito a organizzare un nuovo viaggio in Siria per dicembre. Questa volta gli hanno assicurato che potrà parlare con suo figlio, che al momento si troverebbe in un centro di detenzione nella città di Hasaka. Non sa bene cosa aspettarsi. Da quell’ottobre di cinque anni fa ha pensato spesso a cosa possa avere portato i suoi figli a lasciarsi alle spalle una vita agiata per rispondere al richiamo del califfo, ma non si è ancora dato una risposta. Per arrivare preparato all’incontro prende nota di tutte le domande che vuole fare a Fabian quando lo vedrà. “Per prima cosa lo abbraccerò, gli chiederò come sta. Poi gli chiederò dov’è Manuel? Dov’è tuo fratello?”.

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