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Diritti / Reportage

Nel Kurdistan iracheno, verso la notte dell’Occidente

Reportage dal campo profughi di Makhmour, nel nord dell’Iraq, al confine con la Turchia e con la Siria, dove 13mila persone hanno organizzato una forma di democrazia partecipata che vede protagoniste le donne. “Una situazione che ha assunto nelle ultime ore dimensioni drammatiche”, racconta Cecco Bellosi che ha visitato il campo tra fine settembre e inizio ottobre

© Associazione Verso il Kurdistan

Dal 27 settembre al 7 ottobre 2019, Cecco Bellosi, scrittore e coordinatore dell’”Associazione Comunità Il Gabbiano”, ha raggiunto con l’”Associazione Verso il Kurdistan” il campo profughi di Makhmour. Con lui Giorgio Barbarini, medico del reparto malattie infettive di Pavia. Hanno portato medicinali, in particolare linguette per la misurazione della glicemia, antiinfiammatori, antibiotici, antiipertensivi. “Questi non sono appunti di viaggio -premette Bellosi- ma di un’esperienza in un campo profughi che in questi mesi è diventato un campo di prigionia”.


Il campo di Makhmour è sorto nel 1998, su un terreno arido assegnato dall’Iraq all’ONU per ospitare i profughi di un viaggio infinito attraverso sette esodi, dopo l’incendio dei villaggi curdi sulle alture del Botan nel 1994 da parte della Turchia.
Niente di nuovo sotto il sole, con Erdogan.
Quei profughi hanno trasformato quel fazzoletto di terra senza un filo d’erba in un’esperienza di vita comune che è diventata un modello di democrazia partecipata del confederalismo democratico, l’idea di un nuovo socialismo elaborata da Apo Ocalan (Abdullah Ocalan, per i curdi Apo) nelle prigioni turche, attorno al pensiero del giovane Marx e di Murray Bookchin.
Il campo di Makhmour non è un laboratorio, è una storia intensa di vita.
Da vent’anni questi tredicimila profughi stanno provando a realizzare un sogno, dopo aver pagato un prezzo molto, troppo elevato, in termini di vite umane. Nel campo vi sono tremilacinquecento bambini e il 70% della popolazione ha meno di 32 anni. La loro determinazione a vivere una vita migliore e condivisa ha superato finora tutti gli ostacoli. Anche l’assalto da parte dell’ISIS, respinto in pochi giorni con la riconquista del campo.
Il loro campo.

Da alcuni mesi sono sottoposti a un’altra dura prova. Il governo regionale del Kurdistan iracheno ha imposto, su istigazione del regime turco, un embargo sempre più restrittivo nei loro confronti. Nessuno può più uscire, né per lavoro né per altri motivi.
Siamo stati con loro alcuni giorni, in un gruppo di compagni e compagne dell’Associazione Verso il Kurdistan, condividendo la loro situazione: dalla scarsità di cibo, che si basa ormai solo sull’autoproduzione, alla difficoltà di muoversi al di fuori del perimetro delimitato e dimenticato anche dall’ONU, sotto la cui tutela il campo dovrebbe ancora trovarsi.
Le scritte dell’ACNUR sono sempre più sbiadite. In compenso, le scritte e gli stampi sui muri del volto e dello sguardo di Apo Ocalan sono diffusi ovunque.
Anche nella Casa del Popolo in cui siamo stati ospiti, dormendo per terra e condividendo lo scarso cibo preparato con cura dagli uomini e dalle donne che ci ospitavano.
Ma per noi ovviamente questo non è nulla, vista la breve temporaneità della nostra presenza.
Per loro è tutto.
In questi anni hanno provato a trasformare il campo nella loro scelta di vita, passando dalle tende alla costruzione di piccole unità in mattoni grigi, quasi tutte con un piccolo orto strappato al deserto.
E, in ogni quartiere, con l’orto e il frutteto comune.
Ci sono le scuole fino alle superiori, con un un indirizzo tecnico e uno umanistico, suddivise in due turni per l’alto numero degli alunni. Fino a tre mesi fa, terminate le superiori, potevano andare all’università a Erbil, il capoluogo del Kurdistan iracheno.
Al mattino li vedi andare a scuola, a partire dalle elementari, con la camicia bianca sempre pulita e i pantaloni neri. E uno zaino, quando c’è, con pochi libri essenziali. Ragazzi e ragazze insieme: non è per niente scontato, in Medio Oriente.
Durante le lezioni non si sente volare una mosca: non per disciplina, ma per attenzione. Non vanno a scuola, per decisione dell’assemblea del popolo, per più di quattro ore al giorno, proprio per evitare che il livello di attenzione scenda fino a sparire. Dovrebbe essere una cosa logica ovunque, ma sappiamo bene che non è così, dove si pensa che l’unico obiettivo sia accumulare nozioni. Le altre ore della giornata sono impegnate in diverse attività di gruppo: dalla cultura al teatro, dalla musica allo sport, autoorganizzate o seguite, in base all’età, da giovani adulti che hanno studiato e che non possono vedere riconosciuto il loro titolo.
Perché sono persone senza alcun documento, da quando sono state cacciate dalla loro terra.
Tenacemente, soprattutto le donne svolgono queste attività, lavorando alla formazione continua per ogni età, dai bambini agli anziani.
Difficile è capire, se non si tocca con mano, il livello di protagonismo delle donne nell’Accademia, nella Fondazione, nell’Assemblea del popolo, nella municipalità e nelle altre associazioni.
Si sono liberate dai matrimoni combinati e hanno eliminato il fenomeno delle spose bambine: non ci si può sposare prima dei 18 anni.
Tutto viene deciso assemblearmente, tutto viene diviso equamente.

Uno slancio di vitalità comune, in un dramma che dura da vent’anni e in un sogno di futuro che richiede anche di essere difeso, quando necessario, con le armi.
I giovani armati vegliano sul campo dalle montagne.
Questo esperimento di democrazia partecipata negli ultimi anni è stato adottato in Rojava, la parte di Siria abitata prevalentemente dal popolo curdo e liberata con il contributo determinante delle donne: un’esperienza da seguire e da aiutare a rimanere in vita, soprattutto in questo momento in cui la Turchia vuole distruggerla.
Lì abitano tre milioni di persone, le etnie e le religioni sono diverse. Eppure il modello del confederalismo democratico sta funzionando: per questo rappresenta un esempio pericoloso di lotta al capitalismo per i regimi autoritari ma anche per le cosiddette democrazie senza contenuto.
Nel caos e nel cuore del Medio Oriente è fiorito di nuovo un sogno di socialismo.
Attuale, praticato e condiviso.
Dobbiamo aiutarlo tutti non solo a sopravvivere e a resistere all’invasione da parte della Turchia, ma a radicarsi come forma di partecipazione attiva ai beni comuni dell’uguaglianza e dell’ecologia sociale e ambientale.

L’obiettivo della missione era l’acquisto a Erbil e la consegna di un’ambulanza per il campo. Non è stato facile, vista la situazione di prigionia in cui vivono gli abitanti, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Il giorno dopo la nostra partenza è stato impedito dal governo regionale l’ingresso a un gruppo di tedeschi, con alcuni parlamentari, che doveva sostituirci.
Di seguito trovate gli appunti sugli incontri, dal mio punto di vista, più significativi.

Mercoledì 2 ottobre. Giovedì 3 ottobre.
Il protagonismo delle donne e il confederalismo democratico

Venerdì 4 ottobre. Sabato 5 ottobre.
Incontro con M e con i giovani che difendono il campo

Domenica 6 ottobre. Lunedì 7 ottobre.
L’uscita dal campo e la differenza

© riproduzione riservata

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