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Diritti / Intervista

Luce sulla “mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, due anni dopo

© Matthew Ansley, via unsplash

Luigi Romano, avvocato del foro di Benevento e presidente di Antigone Campania, ricostruisce in un libro quel che accadde nel penitenziario il 6 aprile 2020. Nell’aula bunker del Tribunale casertano, a metà dicembre 2021, è iniziato il processo che vede 108 imputati con accuse gravissime

“La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane” (Monitor edizioni, 2021) è il titolo del recentissimo libro di Luigi Romano, avvocato del foro di Benevento e presidente di Antigone Campania, che ripercorre i tragici fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (CE) il 6 aprile 2020. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare nei dettagli che cosa è successo quel giorno, quando reparti della polizia penitenziaria hanno fatto uscire dalle celle i detenuti e li hanno picchiati con una violenza inaudita. Al punto da far intervenire, dopo la diffusione delle immagini della videosorveglianza interna, avvenuta un anno dopo, anche il presidente del Consiglio Mario Draghi e la ministra della Giustizia, Marta Cartabia che nel luglio 2021 definì la vicenda alla Camera come “una violenza a freddo con un uso smisurato e insensato della forza”. Perché le “violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti a Santa Maria Capua Vetere recano una ferita gravissima alla dignità della persona, pietra angolare della nostra convivenza civile”.

Avvocato Romano, quale era stata prima la reazione della politica?
LR Come nel caso delle torture avvenute a Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001, non appariva possibile che le divise dello Stato si fossero comportate in un modo così brutale e avessero adottato condotte fuori dalle regole. Per questo la compagine governativa, almeno fino all’uscita delle immagini, non ha mai espresso una parola di critica, anzi si è schierata in difesa dell’apparato.

Il suo libro fa luce proprio su quanto avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Che cosa accadde?
LR Durante la prima settimana di aprile si era diffusa la notizia di un contagio di Covid-19 all’interno delle sezioni del carcere. Oggi come allora è davvero difficile mantenere le norme di profilassi sanitarie all’interno di celle piccole e sovraffollate. In aggiunta mancavano completamente dispositivi di protezione individuali e i detenuti erano entrati così in uno stato di fibrillazione, rifiutandosi di entrare nelle celle e chiedendo un’interlocuzione con la magistratura. Alla protesta dei carcerati è corrisposto uno stato di tensione anche tra le forze di polizia penitenziaria, stressate dall’ulteriore carico di lavoro imposto dalla diffusione del virus. Tutti erano in uno stato di ansia visibile, prodotto da una frustrazione diffusa. Per le forze di polizia, però, era prioritario pacificare le sezioni dei “comuni”, quelle che avevano dato più problemi di gestione sin dall’inizio della pandemia. Sebbene il 5 aprile la situazione nel reparto fosse rientrata pacificamente, la perquisizione straordinaria prevista per il giorno successivo è stata mantenuta. Si è deciso quindi di governare le proteste con la forza e la violenza: la perquisizione è diventata così la “mattanza”.

I fatti di Santa Maria Capua Vetere sono avvenuti un mese dopo le rivolte carcerarie più violente in Italia degli ultimi anni. Nel libro suggerisce un legame tra quanto avvenuto a marzo 2020 e la violenza di aprile a Santa Maria Capua Vetere dello stesso anno: può spiegare meglio?
LR A Salerno e Poggioreale le rivolte di marzo sono rientrate senza ricorrere alla violenza. Si è riusciti a governare quanto successo, mentre a Santa Maria Capua Vetere lo stato di tensione costante non è stato risolto e il ripristino dell’ordine interno è stato violento. Era come una pentola a pressione: le tensioni si sono accumulate e sono esplose nella perquisizione che serviva, nell’ottica dei reparti che l’hanno condotta, a tornare a lavorare in tranquillità.

Tra gli autori della “perquisizione” del 6 aprile c’è stato il reparto speciale “Gruppo di supporto agli interventi”, istituito in Campania dopo le rivolte del mese precedente. Di che cosa si tratta?
LR È un reparto di supporto senza una particolare formazione. Probabilmente è stato creato per sopperire alle difficoltà che gli istituti penitenziari campani stavano affrontando in quella fase: quando ci sono state le rivolte in alcuni istituti, chi era in servizio chiamava i colleghi per farsi aiutare. Il provveditorato di Napoli ha scelto di istituire quel gruppo di servizio per dare una risposta straordinaria ma permanente agli istituti che ne avessero avuto bisogno.

A rendere diverso il caso di Santa Maria Capua Vetere da altri episodi di rivolta all’interno delle carceri italiane è stata l’inusuale dedizione del magistrato di sorveglianza, tornato nell’istituto appena tre giorni dopo le violenze. Che ruolo ha avuto?
LR Un ruolo decisivo. Adoperando i poteri che l’ordinamento penitenziario gli attribuisce, infatti, il magistrato ha ispezionato il carcere, scoprendo quello che era successo nelle ore precedenti. È stato fondamentale perché ha mostrato l’importanza di quei poteri ispettivi previsti dal legislatore nella riforma del 1975: in quell’occasione, eccezionalmente purtroppo, il magistrato ha adempiuto al compito di sorveglianza che le leggi gli riconoscono. Ha fatto il suo dovere, anche in piena emergenza Covid-19, a cui è seguita un’altrettanto doverosa informativa da parte sua alla Procura in merito alle condizioni in cui ha trovato i detenuti dopo la “perquisizione”. Non so dire se solamente con le loro denunce saremmo arrivati dove siamo ora.

L’informativa del magistrato di sorveglianza ha appunto spinto la Procura a procedere con il sequestro delle immagini del sistema di videosorveglianza dell’istituto, rimasto acceso durante la “perquisizione”. Senza quei video quanto sarebbe stato concreto il rischio che tutto finisse nell’oblìo?
LR È una domanda amara che interroga la nostra società. Se da un lato, infatti, le immagini hanno alimentato una sorta di “pornografia mediatica”, dall’altro lato hanno avuto una forza immaginifica tale da rompere il principio di autoconservazione delle istituzioni, che fino ad allora non aveva permesso una messa in discussione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e delle scelte operative fatte nel corso del primo lockdown.

Il 16 dicembre 2021 nell’aula bunker del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha preso avvio il processo che vede 108 imputati con accuse gravissime. Qual è la posta in gioco?
LR Attraverso questo processo, attualmente alle fasi preliminari, si potranno accertare le condotte dei singoli durante la perquisizione del 6 aprile 2020 e la veridicità di quanto denunciato in relazione alle responsabilità personali. Il processo di Santa Maria Capua Vetere ha un grande valore simbolico perché sancisce il fallimento di un modello penitenziario in cui è la violenza a far da padrona. Sia come metodo di contenzione sia come strumento di conservazione dei rapporti di forza all’interno di un carcere.

Anche lei è coinvolto in prima linea come avvocato difensore del padre di Lamine, ragazzo algerino di 28 anni che si è tolto la vita il 4 maggio 2020 nell’istituto di pena casertano, dopo un mese di isolamento. Nel libro gli dedica un capitolo.
LR La vicenda di Lamine è la storia della marginalità sociale che viene reclusa nei nostri penitenziari. La sua morte costringe a confrontarsi con l’essenza del sistema carcerario: era una persona migrante, soffriva di scompensi psichiatrici, viveva di piccoli reati, proveniva da una terra povera. La sua storia e il suo corpo raccontano il vuoto e l’assenza di garanzie che si possono generare anche all’interno di uno Stato di diritto occidentale.

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