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Diritti / Opinioni

La vicenda della Diaz non è stata ancora accettata dalla polizia. Un grosso problema

I governi hanno coperto i responsabili delle torture del 21 luglio 2001 in via Battisti a Genova e la polizia si è “impunemente” rifiutata di collaborare con la magistratura, evitando qualsiasi riflessione interna. “Un quadro inaudito e desolante”, scrive Enrico Zucca, pm di quel processo, trattato da “scheggia impazzita”, come le vittime e i feriti

© Laura Anicio

Quella che segue è la prefazione del sostituto procuratore di Genova Enrico Zucca all’edizione aggiornata del libro “Noi della Diaz” di Lorenzo Guadagnucci


A vent’anni di distanza, è ancora disturbante rammentare la lettura, da parte di una funzionaria della Questura di Genova, del grottesco comunicato, mai ufficialmente rinnegato, con cui veniva giustificato l’arresto in massa di “quelli della Diaz”: 93 persone di varia nazionalità, tra cui l’autore del libro, un giornalista di una storica testata italiana, considerate dalla polizia un’associazione per delinquere sgominata nel suo covo, dopo l’uso di una forza “proporzionata” alla resistenza opposta all’accesso delle forze dell’ordine. 

Nella conferenza stampa così introdotta, contemporaneamente si mostrava lo scarno strumentario utilizzato dal sodalizio criminoso: coltellini multiuso, attrezzi del cantiere aperto nell’edificio scolastico, mascherine di protezione varie, occhialini e strane barre metalliche, asseritamente oggetti atti all’offesa, in realtà sostegni dorsali estratti dai poliziotti da alcuni zaini, indumenti vari e scombinati di colore scuro, le “divise” del black bloc, come erano state definite dal portavoce del capo della Polizia. In questo prodromo della messa in scena che avrebbe poi valicato il recinto sacro del percorso giudiziario, con la trasmissione degli atti e verbali zeppi di menzogne alla magistratura, si colloca la prima epifania delle due bottiglie molotov, la (falsa) prova regina nei confronti degli arrestati, calata come l’asso a sostegno di quella operazione clamorosa che, per il suo collaterale effetto cruento, cominciava a generare pesanti dubbi se fosse davvero quello sbandierato successo. Eppure, in quella stanza della Questura, già molti giornalisti, cui non veniva concesso di fare domande, sapevano per esserne stati testimoni sul campo, quel che bastava per capire che l’umiliazione delle vittime, il cui sangue innocente era trasformato nella storia delle “ferite pregresse” e quindi nella prova del coinvolgimento nei gravi disordini che avevano turbato le manifestazioni di protesta a Genova, avrebbe invece avuto come conseguenza il discredito nel mondo intero della stessa forza di polizia. 

Di lì a poco anche i magistrati avrebbero saputo e potuto agevolmente capire la nuda realtà delle cose, quella che Lorenzo Guadagnucci rappresenta in questo libro memoria, testimonianza e narrazione di eventi ma, ancor più, nel tempo, di quelle difficilmente comunicabili sensazioni di angoscia, terrore e disperazione che hanno provato le vittime accanto al dolore fisico, questo solo reso evidente dai segni sulla carne e sulle ossa. Tortura. Così quella parola associata ai regimi autoritari, alle dittature comunque fuori dai nostri confini fisici e intellettuali, come probabilmente quelli della Diaz pensavano, si prestava a descrivere perfettamente la violenza inaudita che proveniva invece dagli agenti in nome dello Stato democratico. Quello Stato che, con tragico inganno, dopo la furia punitiva diretta a togliere ogni dignità alla persona, si presentava con nuovo e accattivante volto di altri suoi rappresentanti, alcuni poliziotti posti alla custodia dei feriti nell’ospedale, in grado di stabilire un rapporto umano, se non proprio empatia e finalmente i magistrati, ivi recatisi a raccogliere la testimonianza di Lorenzo, ancor più garanti della vera forza della democrazia, la sua legge. La testimonianza, tra le prime assunte dagli stessi pubblici ministeri, pur così chiara e pregnante, non è bastata a convincerli della palese insostenibilità delle accuse strumentalmente cucite addosso dalla polizia in quell’inconsueto arresto di massa. I pubblici ministeri che l’avevano ascoltata in ospedale sono rimasti a lungo indifferenti: solo anni dopo, nel 2003 sono state archiviate per tutti gli arrestati le accuse di resistenza e, finalmente nel 2004, quella della associazione per delinquere. 

Il marchio d’infamia, della pericolosità derivante dall’essere considerati nemici dello Stato, non più sulla base di prove e neppure di indizi, ma di sospetti di mera adesione ideologica ha continuato a persistere, mentre in parallelo cresceva robusta e inequivocabile la prova di altro vero pericolo, quello della sconvolgente deviazione della forza di polizia dalle leggi e dai valori incarnati nella Costituzione. Per le vittime della Diaz poco cambiava, anche dopo il ribaltamento di ruoli, da accusati ad accusatori. Per loro ancora sospetto e diffidenza e lo stesso marchio d’infamia al processo contro i poliziotti. Era messa a dura prova la fede nel principio di uguaglianza, che appariva pur nell’aula di giustizia sfidato dall’intimo convincimento che i diritti umani non spettino proprio a tutti, ma ai soli cittadini che stanno dalla parte giusta, quella che non contesta, quella che è protetta e difesa dai poliziotti che possono agire con mano pesante contro chi è considerato nemico, certi di una immunità che deriva dalle finalità operative. Il fine che giustifica i mezzi. 

Non si sono avute remore nell’invocarlo addirittura nel ricorso alla tortura, come è ormai ben chiaro proprio dai fatti del G8 di Genova e, poco tempo dopo, dal precipitare degli eventi più sconvolgenti che si sarebbero verificati nella stagione della war on terror dichiarata con l’11 settembre. Vittimizzazione secondaria si chiama il processo che trasforma la vittima nel colpevole e a cui si addossa, invece che a quest’ultimo, la responsabilità della sua situazione. Gli associati a delinquere della Diaz sono rimasti a lungo sostanzialmente tali, nel dispiegarsi del percorso processuale, finché, inaspettatamente, la loro testimonianza è posta a fondamento della condanna dei loro aguzzini e di chi ne ha coperto “l’inusitata violenza” con una “scellerata operazione mistificatoria”, secondo le parole della Corte di Cassazione che pronuncia il verdetto finale. La versione delle vittime si è dunque trasformata in “verità” e la parola tortura, la cui evocazione da parte dei pubblici ministeri è grande scandalo, è quella usata da quel Supremo consesso. 

Rileggendo l’analisi di Lorenzo Guadagnucci nella prefazione alla seconda edizione del libro “Noi della Diaz”, scritta quando era ancora in pieno svolgimento il giudizio davanti al Tribunale in primo grado, sono già lucidamente evidenziati gli elementi essenziali della vicenda che si sarebbe protratta per molti anni; il conflitto tra le varie istituzioni dello Stato è evidente: aleggia nell’aula di giustizia la richiesta di impunità e copertura politica, gli imputati disertano il processo perché sono saldamente incardinati nella forza di Polizia, di cui rimangono vertici; i pubblici ministeri, quei pubblici ministeri che stavano incredibilmente dalla parte delle vittime, attaccati anche personalmente e considerati come schegge impazzite. Qualcuno li fermerà, sicuramente, questa è la sensazione che con realistico pessimismo sembra essere il portato naturale di quel conflitto. Non è andata così e questo conforta.

Quel che succede dopo, tuttavia, è ancora da comprendere adesso, se abbia davvero avuto il sopravvento in pieno il dover essere del diritto, se giustizia per dirla in breve sia stata fatta, se le ferite si siano rimarginate, con il tempo e con la consapevolezza. 

A tirare le somme e a valutare la reazione dello Stato alle violazioni dei diritti accertate dalla magistratura italiana, quindi a dare una risposta a quegli interrogativi, ci ha pensato la Corte europea dei diritti dell’uomo, opportunamente adita da “quelli della Diaz”, con la sentenza resa il 7 aprile 2015, su ricorso di Arnaldo Cestaro, che così lega il suo nome al primo caso e quella del 22 giugno 2017, nel caso promosso da molte altre vittime, tra cui lo stesso Lorenzo Guadagnucci. Le pronunce fanno storia oltre che precedenti di giurisprudenza, perché il G8 di Genova è il concentrato delle più gravi violazioni dei diritti umani nel contesto di una democrazia occidentale dal dopoguerra, come aveva denunciato Amnesty.

I Giudici di Strasburgo non hanno usato mezzi termini per condannare lo Stato italiano, responsabile di non aver adeguatamente reagito alla violazione del divieto di tortura e di maltrattamenti previsto dall’art. 3 della Convenzione. Per la Corte europea siamo infatti rimasti ben lontani dall’aver ristabilito la giustizia sanzionando solo, e in maniera del tutto inadeguata, le responsabilità di alcuni colpevoli, senza aver individuato tutti gli altri.

Le amministrazioni dello Stato, le istituzioni facenti capo ai governi hanno coperto i responsabili delle violazioni, la polizia si è “impunemente” rifiutata di collaborare con la magistratura nell’accertamento dei fatti. I condannati sono rimasti in polizia e le sentenze si sono ridotte a poca cosa, tra prescrizione e indulto, perciò non hanno svolto la loro funzione di deterrenza. Un quadro inaudito e desolante che spinge la Corte ad attivare lo strumento previsto dall’art. 46 della Convenzione, cioè impartire raccomandazioni e prescrizioni allo Stato responsabile, per evitare il ripetersi delle violazioni, stante una serie di difetti strutturali dell’ordinamento. Soltanto la sinergia delle istituzioni e degli apparati dello Stato può evitare che i diritti umani, pur proclamati, vengano calpestati. Non si trattava soltanto, come frettolosamente si è detto, di introdurre uno strumentario repressivo adeguato sul piano penale (qui viene in rilievo la mancanza all’epoca del reato di tortura), ma di adottare una serie di misure collaterali che lo rendano effettivo e cogente. Fra queste vengono considerati essenziali la sospensione degli agenti e funzionari rinviati a giudizio e la loro destituzione in caso di condanna, la necessità di evitare ogni epilogo prescrizionale, ma anche l’operare di istituti premiali, quali l’indulto o le sospensioni di pena.

È noto come le parole della Corte siano rimaste lettera morta su questi nodi cruciali, non solo per la mancata concreta adozione dei rimedi proposti, ma per la perdurante e avvilente inottemperanza al dovere di informazione su quanto è stato fatto, prima alla stessa Corte e, ancora oggi, al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, organo che mantiene in atto la sorveglianza sostenuta (enhanced supervision) sulla corretta esecuzione della sentenza Cestaro. Neppure la concreta misura suggerita come modesto deterrente per contrastare le modalità praticate alla Diaz (poliziotti a volto coperto irriconoscibili anche ai loro stessi colleghi), cioè l’introduzione di un codice identificativo per gli operatori di polizia, è stata adottata. 

È dunque ancora libero il campo per l’agire di altri poliziotti sconosciuti come il “camicia bianca”, quello che si accanisce su Lorenzo e i suoi vicini già feriti, o il “coda di cavallo”, che beffardamente si siederà in aula alle spalle dei pubblici ministeri mentre proiettano le immagini che lo ritraggono con un bastone in mano, chiedendone conto ai funzionari che hanno stilato l’elenco dei partecipanti all’operazione in cui non compare o, ancora, gli uomini in divisa, anche questi ripresi da un filmato, che prendono a manganellate e a calci Mark Covell come fosse un pallone, mandandolo all’ospedale in codice rosso. Prende corpo l’angoscia provata dalle vittime della violenza al sentire le frasi minacciose “tanto nessuno sa che siamo qui”. 

Pur dopo le parole dei giudici, invano si cercherebbe tuttavia la prova di un riscatto delle vittime alla Diaz, se siano state fatte uscire da quella condizione originaria di deumanizzazione che ha portato al loro annientamento, sotto la violenza fisica e psicologica e che ne ha perpetrato l’effetto, con il successivo arresto sulla base di accuse strumentali. Intanto quel dialogo ricercato dallo stesso Lorenzo con la polizia, che non riusciva a concepire nella società democratica con il volto che lo aveva umiliato e ferito, si era da subito arenato. Voleva giustamente rompere la gabbia della contrapposizione tra “noi” e “loro”. Ma è presto trasformata in delusione la speranza di un passo di riconciliazione che muove anche da quella istituzione per un nuovo rapporto con il cittadino. 

Il tanto auspicato gesto simbolico delle scuse non è ancora adesso arrivato, nonostante siano intervenute le sentenze definitive ed anche il giudizio della Corte europea dei diritti umani, circostanza che pur poteva rendere quel gesto un semplice “atto dovuto”. Forse sono proprio le sentenze definitive, così impreviste e con la pregnanza delle loro valutazioni nei confronti della devianza della polizia a rendere troppo difficile scusarsi con quelle vittime, gli associati a delinquere, ciascuno e tutti come persone cui si deve restituire appieno la dignità violata. Non ho dubbi in proposito: al fondo di questa riluttanza si trova infatti l’obiettiva constatazione che la vicenda della scuola Diaz rimane ancora non accettata dalla istituzione nella propria storia. La polizia, invece che aprire il percorso difficile ma indispensabile di una riflessione al proprio interno per ritrovare l’orgoglio della divisa rinnegando chi l’aveva infangata, si è arroccata e ha fatto muro di fronte ad ogni accertamento. Ha certo pesato il fatto che la spina dorsale del Dipartimento, gli uomini al vertice degli uffici d’eccellenza, sono fra i coinvolti e condannati. Una generazione di dirigenti e di interessenze con i referenti politici di turno ha consentito quella esiziale torsione istituzionale che ha considerato l’accertamento giudiziale un attacco all’intero corpo di polizia, di cui gli imputati condannati hanno continuato a far pare integrante ed effettiva, ricoprendo posti apicali con visibilità e responsabilità operative. 

Ma la spiegazione di questo atteggiamento, che confida nella immunità assicurata dal ricatto subliminale tra protezione invocata e fedeltà governativa, ha radici ben profonde. Davanti alla Corte il governo italiano, irrilevante il colore politico nell’avvicendarsi di diverse maggioranze parlamentari, ha fatto sfoggio di grossolana arretratezza e scarsa volontà di impegno nell’assicurare la ferma adesione ai principi inderogabili della Convenzione. Le sentenze della nostra magistratura sono il pretesto con cui cerca di dichiarare chiusa la partita, sostenendo che le vittime hanno perso la loro qualità e dunque non possono più chiedere nulla in quella sede, essendo state soddisfatte con i rimedi interni, cioè con le condanne ottenute. Una mossa subdola e spregiudicata, cui la Corte risponde con fermezza evidenziando che non è tollerabile lasciar le cose come stanno. La dice lunga però la caduta su un caposaldo della tutela dei diritti umani cui presiede l’alta istituzione convenzionale. Si è infatti sostenuto, da un lato l’eccezionalità degli eventi del G8 che resterebbero un fatto isolato e, dall’altro lo stress straordinario cui è stata sottoposta la gestione dell’ordine e della sicurezza pubblica. 

La partita più importante si gioca su questo piano, sui valori di civiltà a fondamento delle democrazie liberali, spiega ancora una volta la Corte richiamando la propria giurisprudenza. Non c’è stato di eccezione, non c’è situazione che giustifichi o bilanci la violazione di quei diritti fondamentali, alla vita e alla dignità, a non essere sottoposti a tortura o maltrattamenti “anche in casi estremi quali il rischio della vita di un individuo ovvero di un pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, come il terrorismo o la criminalità organizzata”. Il governo svela quindi il mantenimento del doppio standard che ha caratterizzato tutte le sue valutazioni, che tollerano la violazione del diritto come reazione necessaria a fronteggiare pericoli supposti o reali. Per questo le vittime della Diaz non hanno il loro riconoscimento, sono rimaste indistintamente etichettate come appartenenti alla massa di coloro che sono scesi in piazza per manifestare, entro cui si annidava il “nemico”. Per questo i poliziotti hanno fatto il loro dovere, la polizia “si è difesa come ha potuto”, secondo le incoscienti dichiarazioni di un ex Capo della polizia ancora nel 2010. 

È certo difficile rompere le barriere concettuali e culturali che continuano a essere distoniche dal percorso di attuazione dei diritti in cui si compie quotidianamente la pratica della democrazia. Lorenzo Guadagnucci è fra quelli che non si rassegnano e non rinuncia a coltivare la speranza del cambiamento. La dobbiamo conservare necessariamente, se vogliamo che il cambiamento abbia il segno che auspichiamo e non quello contrario che ci fa trovare con la legge sospesa come nella notte della Diaz e precipitare nel “luogo di non diritto” di Bolzaneto. 

Ho incontrato più volte Lorenzo Guadagnucci dopo il processo, esaurito il mio ruolo professionale. Insieme a lui ho partecipato a dibattiti, convegni e a comuni iniziative con avvocati, magistrati, esperti di diritto, specie al tempo del dibattito in occasione della approvazione della legge che avrebbe dovuto (ma non l’ha completamente fatto) codificare il reato di tortura, nei termini imposti dalle convenzioni e secondo le chiare indicazioni che provengono dalle sentenze che si sono pronunciate su quella perpetrata alla Diaz. Una voce molto importante la sua, perché proviene da un fine intellettuale, devoto alla non violenza, al rispetto delle persone e della loro dignità. E certo sa di cosa parla. A lui non si possono raccontare storie, ne ha abbastanza di ferite pregresse. Ma non tutti vogliono sentire che sì, in Italia la tortura esiste e a questa orribile scorciatoia per raggiungere i fini ritenuti opportuni hanno fatto ricorso non servizi speciali in tempi cupi, ma funzionari e agenti delle nostre forze di polizia ordinaria, in un giorno qualunque.

Non è un caso che ci siamo trovati insieme in molte occasioni, ciascuno con la propria esperienza, senza paragone la sua, a ricordare semplicemente “these truths”, queste verità, i diritti inalienabili appartenenti ad ogni persona. È il primo atto di fede nella democrazia, ma si rischia di essere scambiati per cospiratori. Quando, cioè sempre, qualcuno afferma il suo diritto a costo di negarlo agli altri, è la stessa vita della democrazia che richiede una reazione perché altrimenti muore, come ci insegna la professoressa Jill Lepore nel raccontare con inconsueto angolo visuale la storia degli Stati Uniti, costellata da rivolte e repressioni nonostante le solenni premesse sui diritti di tutti gli uomini alla vita, alla libertà e financo alla felicità. Qui si va nel profondo dei temi del G8 genovese e del movimento di massa che si era riversato nelle strade della città. La repressione è solo la schiuma che vediamo in superficie, Lorenzo Guadagnucci non si ferma qui con la sua testimonianza, ma ci invita a guardare i conflitti che quella repressione intende coprire.

Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 del 2001. È editorialista di Altreconomia.

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