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Diritti / Opinioni

Non sappiamo quasi nulla delle nostre forze dell’ordine

© Eva Elijas, pexels

La Corte europea di Strasburgo interviene in merito alla morte di Riccardo Magherini. Una ferita ancora aperta. La rubrica di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 245 — Febbraio 2022

A Strasburgo alla Corte europea per i diritti dell’uomo ci sono giudici che da qualche tempo si trovano a svolgere un ruolo insolito, di supplenza rispetto alle istituzioni del nostro Paese. Stanno cioè ponendo -si spera con maggior successo- alcune cruciali domande giuste che in Italia restano inascolate se formulate da singole persone o associazioni, oppure non vengono proprio fatte da chi avrebbe titolo per essere preso -anche formalmente- in considerazione, per esempio ministri e capi di governo.

Stavolta a Strasburgo i giudici hanno esaminato il ricorso presentato dai familiari di Riccardo Magherini, morto a 39 anni in Borgo San Frediano, nel centro storico di Firenze, fra il 2 e il 3 marzo 2014 durante un fermo attuato da una pattuglia di carabinieri. L’istanza è stata accettata e all’indirizzo del governo italiano è stato recapitato un documento nel quale si chiede di rispondere a domande che sono tanto precise quanto ovvie di fronte a un caso del genere: un uomo in evidente stato di alterazione, bloccato a terra, caduto in crisi respiratoria e infine deceduto.

Il processo italiano sulla morte di Magherini si è chiuso con l’assoluzione dei carabinieri ma la Corte chiede all’Italia: uno, se l’uso della forza sia stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato” al raggiungimento dell’obiettivo (che dovrebbe essere stato quello di contenere una persona alterata ma chiaramente inoffensiva); due, se sia stata garantita dagli operatori la tutela di una persona in condizioni di particolare vulnerabilità; tre, se le autorità possano dimostrare di avere fornito agli agenti una formazione adeguata, in grado di prevenire abusi.

Luigi Manconi, nella passata legislatura presidente della Commissione per i diritti umani del Senato, ha commentato la notizia parlando di “codice Floyd” per dire di quella tecnica di fermo che consiste nell’immobilizzare a terra il fermato in posizione prona. Una tecnica che negli Stati Uniti, dove George Floyd perse la vita soffocato nel maggio 2020 durante un fermo di polizia, chiamano knee to neck, ginocchio sul collo. In Italia un nome del genere non c’è ma l’immobilizzazione a terra, con il conseguente rischio di soffocamento, è “risultata essenziale”, come dice Manconi, nel determinare la morte di almeno una decina di fermati, oltre a Riccardo Magherini.

569 secondi è il tempo trascorso da George Floyd sotto il ginocchio dell’agente Derek Chauvin, fino a morire soffocato nel maggio 2020 a Minneapolis negli Stati Uniti. Nel 2021 Chauvin è stato condannato a 22 anni di carcere.

Ora si chiede all’Italia, e quindi ai vertici delle nostre forze dell’ordine, di rispondere alle domande che familiari, attivisti, rappresentanti istituzionali (pochi) hanno messo nero su bianco innumerevoli volte e da molti anni ormai, senza ottenere nulla, se non generiche rassicurazioni sulla professionalità degli operatori: perché si usa quella tecnica? Con quale formazione per gli agenti? Con quali verifiche sui casi concreti?

La Corte di Strasburgo -com’era avvenuto coi fatti del G8 di Genova e le pesantissime condanne inflitte all’Italia- mette dunque a nudo le carenze strutturali delle nostre forze dell’ordine incapaci di trasparenza, abituate a considerarsi corpo separato dello Stato, indifferenti alle richieste -ragionevoli, oltre che legittime- della società civile. La verità è che a vent’anni dagli abusi e dalle torture del G8, e nonostante i casi Cucchi, Aldrovandi, Magherini, Santa Maria Capua a Vetere, per non citare che i più eclatanti, non sappiamo pressoché niente dei criteri di formazione delle forze dell’ordine, delle procedure disciplinari, di come vengono gestiti i casi di abusi e violazioni. Non sappiamo quasi nulla delle nostre forze dell’ordine.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”

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