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Diritti / Opinioni

Elogio della schwa, segno dei tempi che cambiano

È una risposta concreta all’ingiustizia discorsiva che passa attraverso le parole. Il mezzo per non essere più solo “parlati” e silenti. La rubrica Di Lorenzo Guadagnucci

Tratto da Altreconomia 244 — Gennaio 2022

Carlo, detto Carluccio, era una persona speciale. Ha vissuto un’esistenza difficile per via della sua condizione transgender: corpo di maschio, senso di sé come donna. Nato (o nata?) negli anni Trenta, non ha mai davvero avuto la possibilità di vivere appieno la sua identità. Carluccio (o Carluccia?) se n’è andato (o andata?) poco tempo fa ed è stato (o è stata?) ricordato (o ricordata?) a Carrara in un incontro organizzato dalla sezione locale della Fai, la Federazione anarchica italiana, e dall’organizzazione intersexioni che si occupa primariamente delle questioni legate alle minoranze per sesso, identità di genere, orientamento sessuale e all’intreccio fra le varie forme di discriminazione. L’incontro è stato intitolato “Finalmente Carlucciə”, con un uso strategico della schwa grazie alla quale potremmo riscrivere con meno imbarazzo e più chiarezza anche le frasi precedenti.

La schwa è oggi al centro di discussioni piuttosto accese, fra chi la difende e la pratica, chi la rifiuta con sdegno, chi precisa che non potrà mai entrare nei canoni linguistici. Carlucciə però sarebbe contentə del titolo dato all’incontro di Carrara: finalmente potrebbe sentirsi rispettatə, dopo una vita trascorsa fra gli equivoci, le incomprensioni, le cattiverie. È insomma possibile fare un elogio della schwa che è davvero un segno dei tempi che cambiano, come dicono -contrariati forse da questo, più che dalla e rovesciata in sé- i suoi detrattori.

Si usa la schwa -come gli asterischi, le chioccioline e altri segni grafici- per aggiornare il linguaggio a sensibilità nuove e al protagonismo di soggetti e gruppi sociali tradizionalmente silenti. Questi ultimi oggi vogliono prendere la parola e definire sé stessi; non accettano più di essere “parlati” da chi ha il dominio del discorso pubblico. Perciò la schwa svolge una funzione preziosa: permette di indicare le identità di genere “non binarie” e di nominare gruppi composti sia da donne sia da uomini. È vero, pone problemi sia di pronuncia (è tuttavia un segno fonetico di vocale detta -diversamente dalle altre- senza muovere la bocca, un po’ come la Napulə di Pino Daniele) sia di scrittura nelle concordanze, nell’uso degli articoli e così via.

Ma come dice Vera Gheno, la sociolinguista che ne difende l’uso: con tutti i suoi difetti, la schwa è una risposta concreta alla concretissima “ingiustizia discorsiva” che passa attraverso le parole. E dopotutto, nonostante le autorevoli e professorali “condanne”, viene comunque usato da tanti, anzi da tantə, è entrato nelle tastiere di ultima generazione, compare sui libri di alcuni editori e negli elzeviri firmati sull’Espresso da Michela Murgia (con annesso scandalo dei benpensanti e benscriventi).

Sono 6 gli anni trascorsi dalla promozione della schwa (Ə) e della schwa lunga per il plurale (з) da parte di Luca Boschetto, curatore del sito Italiano inclusivo.

A ben vedere non c’è da sorprendersi troppo: si ripete in qualche modo la storia dell’asterisco, usato da molto tempo nei testi, nei messaggi e nelle email di una bella fetta di società, con effetti imprevisti nel linguaggio corrente: il segno * è ancora meno pronunciabile della e rovesciata ma chi lo usava nello scritto, anche venti e più anni fa, adottava nel parlato formule come “care tutte e cari tutti” che sono col tempo divenute patrimonio comune e si ascoltano in conferenze e trasmissioni decisamente mainstream.

Tullio De Mauro, il grande linguista, ricordava sempre che la “scuola tradizionale ha insegnato come si deve dire una cosa. La scuola democratica insegnerà come si può dire una cosa, in quale fantastico infinito universo di modi distinti di comunicare noi siamo proiettati nel momento in cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa”.

Lorenzo Guadagnucci è giornalista del “Quotidiano Nazionale”. Per Altreconomia ha scritto, tra gli altri, i libri “Noi della Diaz” e “Parole sporche”.

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