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Cultura e scienza / Intervista

Grada Kilomba. Una poetica per decolonizzare

© Federico Leccardi

Intervista all’artista portoghese che da anni lavora sui temi della memoria e del genere. Creando legami tra la schiavitù, il colonialismo e le storie dei migranti morti in mare

Tratto da Altreconomia 243 — Dicembre 2021

Nei suoi lavori l’artista portoghese Grada Kilomba mette in scena rituali e cerimonie per indagare le politiche che hanno cancellato 500 anni di storia di schiavitù. A Lisbona, in Portogallo, lo scorso settembre ha posizionato a pochi metri dal mare una barca lunga 32 metri, realizzata con pezzi di legno bruciato su cui ha inciso una poesia. L’installazione è una commemorazione dello schiavismo in una città dove “ci sono imbarcazioni che celebrano il passato coloniale -spiega-. Volevo realizzare un’opera che sollevasse la seguente questione: che cosa hanno trasportato per 500 anni? Perché nessuno ne parla?”. La domanda su chi è legittimato a prendere la parola è una costante nei lavori dell’artista interdisciplinare nota per l’uso di forme diverse (dalle installazioni alle performance) per parlare di memoria, trauma e genere mettendo in campo pratiche decoloniali.

In “The desire project” realizzato per la Biennale di San Paolo in Brasile, Kilomba ha creato un’installazione video come rappresentazione del rapporto tra Africa, Europa e Sudamerica “dal momento che io vivo e sono nata in Europa, i miei antenati venivano dall’Africa ed ero stata invitata in Brasile”, racconta. L’opera ruota intorno alla figura di Anastácia, una schiava che ha rivestito un ruolo importante nella cultura religiosa brasiliana, venerata a partire dal XIX secolo. Secondo la tradizione, la donna fu costretta dal suo padrone a indossare una maschera affinché non potesse parlare: “Si tratta dello strumento utilizzato in epoca coloniale per spaventare le persone ed evitare che facessero sentire la propria voce -spiega Kilomba-. Volevo concentrarmi sul rapporto tra passato e presente, su come si sovrappongono, e sul fatto che i dubbi che questa donna sollevava nello schiavismo sono ancora oggi rilevanti in un sistema democratico, ovvero la paura di esprimersi e il rischio di essere puniti come conseguenza.

L’installazione video consiste in alcuni testi proposti in luogo delle immagini, accompagnati dal suono delle sole percussioni, senza alcuna voce”. In “Table of goods” ha invece realizzato un cumulo di cacao, caffè e zucchero: i tre prodotti su cui storicamente si è basato “il progetto coloniale della schiavitù” per simboleggiare il sistema delle piantagioni “fondato sul lavoro degli schiavi”. I lavori di Grada Kilomba sono stati presentati in importanti contesti internazionali, come la Biennale di Berlino, ed esposti, tra gli altri, al Padiglione di Arte contemporanea di Milano, al Secession museum di Vienna e al Bozar museum di Bruxelles. In Italia l’artista ha pubblicato nel 2021 il libro “Memorie della piantagione” (edizioni Le Capovolte) una raccolta di episodi di razzismo quotidiano scritti sotto forma di storie psicoanalitiche. Il testo indaga il tema del trauma e di come il razzismo sia una ripresentazione del passato e con esso anche del sistema delle piantagioni.

“Memorie della piantagione” fa emergere la realtà psicologica del razzismo quotidiano, vissuto in particolare dalle donne nere, basato su impressioni soggettive e narrazioni biografiche. Può spiegarci il significato del titolo?
GK Mentre mi dedicavo alla scrittura, ho realizzato che il punto focale del libro era il trauma. I traumi hanno a che fare con la reiterazione e riflettevo su come esista un trauma collettivo che sembra ripetersi attraverso il razzismo. È come una messa in scena: interrompe improvvisamente il presente con il passato e con il sistema delle piantagioni, cioè il luogo dove divento l’altra e inferiore, dove non vengo più considerata parte dell’umanità e non posso coesistere come pari, il luogo in cui devo coesistere ai margini come diversa. Mi sembra che la piantagione -dove hanno forma tutte le politiche del colonialismo, della schiavitù, dell’inferiorizzazione e disumanizzazione- sia lo spazio in cui questa storia è condensata. Attraverso il razzismo si rivive il trauma, il ricordo del passato nelle piantagioni. Il titolo vuole trasmettere questa complessità, cioè che la memoria è una “teoria del dimenticare e dell’oblio”: non puoi evitare di ricordare ma non puoi dimenticare. C’è una sorta di dualismo.

L’opera “O barco”, realizzata da Grada Kilomba a Lisbona, ha previsto una performance di artisti che si sono mossi intorno a 140 pezzi di legno bruciati.  Si tratta di un omaggio di Kilomba alle vittime della schiavitù e un monito al Portogallo che non ha ancora elaborato il suo passato coloniale © Bruno Simao

Perché ha deciso di tradurre il libro in italiano ricorrendo allo schwa?
GK
 È importante capire che la lingua non ha solo una funzione poetica ma può esercitare potere e violenza fissando le identità al proprio posto, mettendo alcune persone in una posizione di subumanità e negando l’esistenza di alcune identità. A differenza dell’inglese e di molte lingue africane, le lingue neolatine non solo declinano in base al genere ma prevedono un sistema binario. Al momento di tradurre il libro in italiano è sorto questo problema insieme a quello per cui nelle lingue neolatine tutto viene ridotto al maschile. Ho pensato che l’unica soluzione fosse la creazione di un nuovo linguaggio che non riducesse le parole a una forma maschile o a un sistema binario. Chi vuole tradurre ha l’obbligo e la responsabilità di aggiornare e modificare la lingua. Arriva un momento in cui dobbiamo mettere in discussione le regole e trasformarla, anche confondendo il pubblico, e quindi decolonizzarla. 

Nel libro scrive che il razzismo di ogni giorno non è rappresentato da singoli episodi ma è una costellazione di esperienze di vita. Che cosa intende?
GK Esiste il “mito” secondo cui si tratta di singoli momenti di violenza in cui veniamo visti come “l’altro” e non siamo considerati esseri umani. Non è così. Anche se a volte si manifesta in piccoli momenti, il razzismo è una presenza costante che si reitera. È questa l’idea in “Memorie dalla piantagione”: il razzismo è una continuazione del passato, il passato che si ripete nel presente.

“Chi vuole tradurre ha l’obbligo e la responsabilità di aggiornare e trasformare la lingua. Arriva un momento in cui dobbiamo mettere in discussione le regole”

Nel settembre 2021 a Lisbona ha messo in scena “O barco”: 140 blocchi di legno bruciato sono stati disposti in modo da disegnare la struttura di un’imbarcazione come omaggio ai corpi dispersi in mare e alle vittime della schiavitù. Un commercio mondiale in cui il Portogallo ha avuto le sue responsabilità. Una rivisitazione dell’installazione sarà ospitata nel gennaio 2022 in Italia nel Castello di Rivoli Museo d’arte contemporanea. Come nasce quest’opera?
GK Nel mio lavoro passo sempre da un’opera all’altra e quella precedente influenza la successiva. Prima di “O barco” avevo realizzato un’installazione video su Antigone. È una trilogia, al momento si trova al Tate Modern di Londra, in cui ho rivisitato la mitologia greca e l’ho utilizzata per interpretare il contesto postcoloniale. Ho fatto ricorso alla storia di Antigone perché ci permette di comprendere alcuni dei conflitti che esistono oggi. Antigone si trova in una situazione tragicamente conflittuale: vuole seppellire il fratello ma se lo farà morirà. È un dilemma femminista perché deve decidere se disobbedire al re o meno. Ma è una questione ancora più complessa di così. Non si tratta solo di una donna che sfida il re ma di una donna che rivendica il proprio diritto di ricordare il fratello e celebrarlo, e di come le cerimonie ci consentano di ricordare. Il re non permette ad Antigone di seppellire il fratello perché vuole che dimentichi la sua storia e il suo passato. Ho lavorato molto sul tema delle politiche di cancellazione, su come le cerimonie, i rituali e la memoria vengano cancellati, su come 500 anni di storia di schiavitù siano stati cancellati. Da qui ho realizzato quanto fosse importante creare un’opera sul tema non solo della memoria, ma anche della sepoltura dignitosa. Seppellire qualcosa in maniera dignitosa e raccontare la storia nel modo giusto secondo me sono concetti “decoloniali”. Poi è venuta l’idea di un’opera commemorativa della schiavitù a Lisbona. Una scultura molto grande, una nave appunto, che mostrasse le sue politiche di cancellazione. 

Qual è il ruolo della cerimonia e del rituale nelle sue opere?
GK
 Attraverso ogni gesto e ogni movimento, ogni voce e canzone, puoi creare un ricordo. Non dobbiamo dimenticare che molte cerimonie e molti rituali sono stati proibiti, e questo ha di nuovo a che fare con le politiche di cancellazione. Nella storia coloniale possiamo individuare il tentativo di cancellazione per cui tutti i rituali, le religioni, la spiritualità, la danza e la musica erano vietati. L’idea, come succede nella storia di Antigone, è che le persone non devono ricordare. Senza ricordi non c’è memoria. Se si dimentica non c’è memoria. 

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