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Diritti / Inchiesta

G8 di Genova: inchiesta sulle sanzioni mancate ai poliziotti

Per la prima volta dopo 20 anni la polizia ci ha trasmesso i numeri degli agenti e funzionari destinatari di misure disciplinari: nessuna destituzione e ancora tanta opacità. Non è il passato: la Corte europea attende risposte dal Governo Draghi

Tratto da Altreconomia 242 — Novembre 2021
© istockphoto

A vent’anni dal G8 di Genova la polizia di Stato continua a essere reticente rispetto alle sanzioni disciplinari a carico dei condannati in via definitiva per i fatti del luglio 2001. E il Governo Draghi, come i precedenti, non sta rispondendo alle richieste della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) in merito all’esecuzione della sentenza Cestaro dell’aprile 2015 sui fatti della scuola Diaz. 

Ma c’è un fatto nuovo dentro la cortina fumogena alimentata in questi vent’anni anche di fronte alle sollecitazioni del Comitato dei ministri del Consiglio europeo, organo deputato alla supervisione dei pronunciamenti della Cedu. Rispondendo a diversi accessi civici promossi da Altreconomia nell’estate 2021, il dipartimento di Pubblica sicurezza ha fornito per la prima volta i numeri dei poliziotti sanzionati, confermando che nessun condannato in via definitiva per i fatti del G8 è stato rimosso dall’incarico.  “Il numero del personale appartenente alla polizia di Stato destinatario di una o più sanzioni disciplinari relative ai fatti del G8 di Genova 2001 è di 30 unità”, ha fatto sapere ad Altreconomia la direzione del Servizio affari generali del ministero dell’Interno. 

Le sanzioni irrogate sono state appena “13 richiami scritti, 2 pene pecuniarie, 5 sospensioni disciplinari e 18 sospensioni dall’impiego”. Le sospensioni hanno avuto una durata compresa “tra i 20 giorni e i 6 mesi”. I 18 sospesi dall’impiego sono stati tutti reintegrati, mentre il personale coinvolto in procedimenti giudiziari in servizio al 23 giugno 2021 “risulta pari a 26 dipendenti”. I provvedimenti sarebbero stati adottati nel 2010, 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016. 

I procedimenti disciplinari avviati che avrebbero potuto portare alla “destituzione” (ovvero alla rimozione) sono stati solo quattro e nessuno ha raggiunto lo scopo, nonostante condanne definitive per reati gravissimi come falso in atto pubblico (calunnia, arresto illegale e lesioni gravi furono prescritti in Cassazione per i fatti della Diaz ma con implicita condanna dei responsabili, chiamati a risarcire civilmente le vittime per queste condotte). I dati, fa sapere il dipartimento di Pubblica sicurezza, non riguardano chi è “cessato dal ruolo” durante i processi o i procedimenti disciplinari, ovvero “15 unità”.

Le risposte fornite dalla polizia di Stato sono però lacunose. Alla nostra domanda di conoscere la “tipologia di incarico” dei sanzionati, il dipartimento ha risposto di non poter dar seguito per evitare un “pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali”. Il rischio sarebbe infatti quello di “rendere identificabili i soggetti interessati, seppur indirettamente”. Si fa finta di non sapere che per la gravità delle condotte e l’apicalità dei soggetti addirittura le sentenze passate in giudicato recano nomi e cognomi dei condannati (come nel caso della Diaz).

30 appartenenti alla polizia di Stato sono stati destinatari di una o più sanzioni disciplinari per i fatti del G8 di Genova

18  appartenenti alla polizia di Stato sono tornati in servizio dopo un periodo di sospensione

Essere trasparenti sull’incarico che ricoprivano i soggetti interessati dalle (lievissime) sanzioni disciplinari vorrebbe dire, secondo il Viminale, incidere sul loro “rapporto di lavoro e la vita lavorativa”. Di più: quelle informazioni potrebbero essere “utilizzate da terzi” per una “vicenda che sul piano mediatico ha raggiunto ampia visibilità nel corso degli anni”. 

Il muro va oltre. Non solo non è possibile conoscere l’incarico dei sanzionati ma non si possono nemmeno sapere gli illeciti disciplinari che sono stati contestati. È un punto decisivo: far luce sulla natura di quei comportamenti avrebbe probabilmente “svelato” il trucco che ha consentito di non destituire nessuno ma semplicemente di ricorrere a sospensioni disciplinari o dall’impiego. Chi ad esempio è stato messo sotto indagine disciplinare per comportamenti colposi? E in quali casi delle fattispecie inizialmente considerate come colpose sono poi state qualificate come dolose nell’ambito di procedimenti penali con sentenza passata in giudicato? La polizia di Stato non lo dice, trincerandosi ancora una volta dietro la tutela della riservatezza.

Eppure il decreto del presidente della Repubblica 737 del 1981 (“Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti”) elenca le condotte che comportano la destituzione. Si va dagli “atti che rivelino mancanza del senso dell’onore o del senso morale” a quelli “in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento”. Dal “grave abuso di autorità o di fiducia” alla “dolosa violazione dei doveri che abbia arrecato grave pregiudizio allo Stato, all’Amministrazione della pubblica sicurezza, a enti pubblici o a privati”. Dai “gravi atti di insubordinazione commessi pubblicamente o per istigazione all’insubordinazione” alla “reiterazione delle infrazioni per le quali è prevista la sospensione dal servizio o per persistente riprovevole condotta dopo che siano stati adottati altri provvedimenti disciplinari”. L’ultimo caso è l’“omessa riassunzione del servizio, senza giustificato motivo, dopo cinque giorni di assenza arbitraria”.

Non solo non è possibile conoscere l’incarico dei sanzionati, ma non si possono nemmeno sapere gli illeciti disciplinari che sono stati contestati

Non si capisce come i funzionari di polizia in posizione di comando condannati nel processo Diaz per una “condotta che aveva gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero” -parole della Cassazione- siano potuti “sfuggire” a quelle tipologie. A meno che quella “odiosità del comportamento” stigmatizzata dalla Cassazione sia stata ritenuta dai vertici della polizia in linea con i doveri assunti con il giuramento. 

Il dipartimento non ha voluto nemmeno comunicare la data di inizio e di fine dei quattro procedimenti che avrebbero potuto portare alla destituzione. Nel caso della Diaz la sentenza definitiva della Corte di Cassazione che ha cristallizzato le condotte è del 5 luglio 2012. A precisa domanda il Viminale ha aggirato il punto, limitandosi genericamente a comunicare che gli (alleggeriti) provvedimenti di sospensione “sono stati adottati negli anni 2012, 2015 e 2016”. 

È come dire nulla. E soprattutto che nulla è stato fatto affinché in casi futuri la sanzione della destituzione venga finalmente irrogata. Del resto ancora nell’ottobre 2019 la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa di Strasburgo aveva evitato il nodo delle sanzioni disciplinari, tradendo così l’esecuzione delle sentenze Cedu sui fatti della Diaz del 2001: la Corte ha dichiarato più volte che quando dei funzionari dello Stato sono imputati per reati che implicano dei maltrattamenti è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi. Ma non è andata così.

Entro il 30 giugno 2020 il governo italiano avrebbe dovuto fornire informazioni al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa rispetto ai procedimenti disciplinari e ai loro esiti. Non lo ha fatto. Il contenuto delle risposte fornite ad Altreconomia spiega il perché di quel silenzio: nessuno ha pagato davvero per i fatti di Genova.

26 i dipendenti coinvolti in procedimenti giudiziari relativi ai fatti del G8 di Genova sono ancora in servizio (all’estate 2021)

15 persone hanno lasciato la polizia di Stato durante i processi o i procedimenti disciplinari e nei confronti dei quali non è stato possibile concludere l’iter disciplinare

“Sarebbe ingenuo dire che vi sia delusione nella risposta alle richieste puntuali di Altreconomia, che comunque ottengono un risultato informativo maggiore di quello che hanno ottenuto la Corte di Strasburgo e il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa -osserva Enrico Zucca, sostituto procuratore generale di Genova, pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz-. Il Comitato dei ministri ha insistentemente richiesto di conoscere l’esito dei procedimenti disciplinari, nei casi concreti di cui alle sentenze (che hanno nomi e cognomi) e di sapere quali interventi anche strutturali e normativi abbia intrapreso lo Stato per assicurare il risultato che la Corte ritiene l’unico compatibile con la Convenzione, cioè la sospensione di chi è rinviato a giudizio e la sua destituzione in caso di condanna”.

L’Italia non ha fatto e detto alunché. Che cosa succede? “Constatata l’inadempienza dello Stato, il Comitato dei ministri a maggioranza qualificata, dopo una formale messa in mora, può rimettere la questione nuovamente alla Cedu -chiarisce Zucca-. L’esecuzione delle sentenze del gruppo Cestaro, cioè quelle dei fatti della Diaz e Bolzaneto, è ancora aperta e sotto stretta sorveglianza a distanza di anni. Fino all’ottobre del 2021 nulla di fatto. Il governo si è fatto sentire l’ultima volta il 23 ottobre 2019 con una comunicazione in cui, per quanto riguarda la responsabilità disciplinare, si limita a esporre genericamente il quadro normativo esistente, senza alcun riferimento ai casi concreti. Per alcune pagine si risolve a menare il can per l’aia circa la responsabilizzazione delle forze dell’ordine all’uso della forza in maniera proporzionata e necessaria, menzionando l’istituita scuola per l’ordine pubblico. Eppure le indicazioni della Corte erano chiare”. Ovvero? “Sui provvedimenti disciplinari nei confronti dei condannati, di quei condannati, la Corte già aveva dovuto prendere atto con rammarico del ‘silenzio del governo’ sul punto. Questo silenzio perdura -ricorda Zucca-. Dopo l’inchiesta di Altreconomia sappiamo almeno quanti procedimenti sono stati instaurati complessivamente, nessuno dei quali è pervenuto neppure lontanamente all’obiettivo indicato dalla Convenzione, cioè alla destituzione dei condannati, i cui nomi conosciamo come conosciamo i nomi di chi aveva la responsabilità di non lasciare ‘impunito’ il rifiuto della polizia di collaborare con la magistratura”. 

Il prefetto Franco Gabrielli, capo della polizia dal 2016 al 2021 © Guillaume Bression / Tokyo Prod

Perché questa reticenza con le istituzioni sovranazionali? “Non certo per pudore nei loro confronti perché peggio del rifiuto non v’è nulla -prosegue il sostituto procuratore di Genova-. I problemi sono l’opinione pubblica e il corpo di polizia che si chiude a difesa a oltranza dei suoi membri. L’una non deve sapere, l’altro deve sapere che è protetto. La polizia, che è lo scudo che dovrebbe proteggere le libertà dei cittadini, diventa scudo di se stessa, contro i cittadini”. I vertici della polizia hanno sempre fatto muro. “L’attivazione e la chiusura dei procedimenti disciplinari, si apprende ora, è avvenuta in tempi antecedenti al mandato del prefetto Franco Gabrielli (capo della polizia tra il 2016 e il 2021) che, non è superfluo ribadire, segna una netta presa di distanza dal passato -nota Zucca-. Ma lo si è notato sulle pagine di Altreconomia, la presa di distanza non è riuscita a rompere il muro dell’omertà e rappresenta l’ultimo avallo alla chiusura delle vicende del G8 con il messaggio contrario a quello richiesto dalla Corte e cioè che torturare si può e farla franca”. Come detto, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva denunciato il rifiuto “impunito” della polizia italiana a collaborare con la magistratura per individuare gli autori materiali delle torture. “L’impunità permane -sottolinea ancora Zucca-, perché i riammessi in servizio sono condannati per aver coperto quegli autori e non hanno quindi avuto il messaggio di fermezza che era necessario dare. Tanto più che la sanzione penale, lungi dall’essere stata ‘esemplare’, come affermava il prefetto Gabrielli, era stata falcidiata dalla prescrizione e dall’indulto, strumenti vietati dalla convenzione il cui operare è parte della condanna dello Stato italiano. Per la convenzione non c’è posto per dissertazioni sulle responsabilità di sistema, sui ‘fusibili’ di turno. Perché i diritti non siano più calpestati ci vogliono le sanzioni individuali in maniera tale che sia tangibile l’effetto di deterrenza. Niente bilanciamenti con l’onorata carriera, è tempo di chiarire che nessuna onorata carriera può essere ancora tale con l’ombra della tortura”. 

“Perché i diritti non siano più calpestati ci vogliono le sanzioni individuali in maniera tale che sia tangibile l’effetto di deterrenza” – Enrico Zucca

Zucca giudica “imbarazzante” anche il “quadro su cui si vorrebbe da parte del governo evidenziare lo sforzo di adeguamento del sistema per evitare il ripetersi delle violazioni. La Corte dà una indicazione senza mezzi termini, quella dei codici identificativi per i servizi di ordine pubblico. La scuola istituita non è riuscita a far accettare neppure quelli ai novelli discenti che ancora compattamente si ribellano. Penoso il resoconto di come si sono arenate in Parlamento le proposte di legge che il governo è costretto a fare. Fa riflettere anche l’unica carta che si potrebbe offrire e cioè l’approvazione della legge sulla tortura che la Corte aveva sollecitato sotto il profilo della imprescrittibilità delle azioni penali e della gravità della sanzione che dovrebbe altresì impedire la concessione di benefici, quali le sospensioni di pena o l’indulto. Su questi punti ben si sa che le critiche sono ancora molte e sono puntualmente avanzate anche dal Comitato dei ministri che paradossalmente aveva salutato come passo avanti solo la legge Bonafede, rilevando la insufficienza del termine prescrizionale per la nuova fattispecie introdotta”. Il Governo Draghi non può tirarsi fuori. “Ora come si spiegherà la riforma Cartabia e la brillante idea della prescrizione processuale? -si chiede Zucca-. Di male in peggio nella prospettiva convenzionale che ormai lascia indifferente anche la ministra costituzionalista e con lei governo, Parlamento e tecnici del diritto”. 

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia e il presidente del Consiglio Mario Draghi © Fabio Cimaglia / Ipa / Fotogramma

È così che per Zucca la tortura “ritorna nell’oscurità, nell’indifferenza, lo scorrere del tempo è dalla sua parte, gli occhi dei cittadini devono essere distolti da quelle piccole pieghe che sono, come nel linguaggio delle convenzioni si dice, le ‘scappatoie per l’impunità’. Una dopo l’altra le condanne della Corte di Strasburgo restano lettera morta e infatti la tortura e i maltrattamenti non scompaiono. Bisogna guardare in avanti ma dopo aver davvero guardato dentro di noi. Sul G8 il cerchio si è chiuso, tanto che nel ventesimo anniversario abbiamo assistito allo stucchevole coro delle tardive indignazioni. Sono i fatti che contano e che raccontano altra storia”.

“Questa vicenda conferma la grave arretratezza della polizia italiana, che si dimostra incapace di attenersi agli standard democratici più avanzati” – Lorenzo Guadagnucci

Anche Lorenzo Guadagnucci, giornalista, autore tra gli altri di “Noi della Diaz” (Altreconomia) ed editorialista della nostra rivista, guarda ai fatti. “Questa vicenda conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la grave arretratezza della polizia italiana, che si dimostra incapace di attenersi agli standard democratici più avanzati anche nel rapporto con le istituzioni europee. L’opacità e la reticenza rispetto ai provvedimenti disciplinari sono l’altra faccia di tale arretratezza e sono coerenti con il rifiuto di ripudiare davvero le gravissime violazioni delle leggi e dell’etica pubblica compiute nel 2001. Il G8 di Genova poteva essere un episodio grave ma rimediabile, è invece un precedente che fa parte a pieno titolo della storia delle forze dell’ordine italiane, è scritto nero su bianco nel loro biglietto da visita agli occhi della cittadinanza e della comunità internazionale”.

Il ruolo dell’informazione è determinante. “Mi colpisce poi una constatazione -aggiunge Guadagnucci-. Queste pur parzialissime e inadeguate ammissioni arrivano per la tenacia di Altreconomia, una piccola testata, mentre i giornalisti più titolati, quelli delle grandi testate specializzati in materia di forze dell’ordine, si sono fatti notare in questi venti anni per un silenzio che diventa complicità, l’opposto del giornalismo: non hanno fatto domande, non hanno chiesto conto degli abusi, non hanno denunciato né l’omertà né la reticenza degli apparati. Genova G8, ancora una volta, è una cartina al tornasole”. 

 

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