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I tribunali delle corporation minacciano il Mozambico. Il ruolo di Eni, Intesa e Unicredit

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I contratti con le multinazionali fossili europee e statunitensi vincolano Maputo alla dipendenza da carbone, gas e petrolio. Cambiare le leggi in materia può comportare infatti un arbitrato internazionale dal conto salatissimo. E mentre TotalEnergies riprende i lavori per un terminal di gas nella provincia di Cabo Delgado, Eni studia una seconda piattaforma e cerca finanziamenti

Il Mozambico affronta un rischio economico considerevole “a causa della sua esposizione alle richieste di risoluzione delle controversie” da parte di investitori stranieri attivi nei settori del carbone, del petrolio e del gas. Un rischio stimato in 29 miliardi di dollari, “quasi il doppio del prodotto interno lordo del Paese che nel 2019 ammontava a 15 miliardi di dollari”, come si legge nel reportBillion-dollar exposure” realizzato dalla Columbia University e commissionato dalle organizzazioni ambientaliste Justiça Ambiental! (Friends of the Earth Mozambique) e Friends of the Earth Europe.

Le aziende fossili presenti nel Paese -tra cui TotalEnergies ed Eni- possono infatti chiedere risarcimenti miliardari nel caso in cui il governo di Maputo decidesse di adottare misure d’interesse pubblico che potrebbero andare a incidere sui loro profitti, come ad esempio normative di tutela ambientale che limitino l’estrazione di combustibili fossili, leggi a favore dei diritti dei lavoratori o una revisione al rialzo delle tariffe per lo sfruttamento dei giacimenti.

Una procedura affatto trasparente, dal momento che non si tratta di un ricorso amministrativo che viene dibattuto davanti a un tribunale pubblico, sulla base di un Investor-State dispute settlement (Isds), un arbitrato internazionale esterno al sistema giudiziario ordinario chiamato a decidere sulle controversie tra “investitori privati” e Stati previsto in molti trattati internazionali.

Lo studio ha preso in considerazione 25 International investment agreements -ovvero gli accordi siglati dal governo del Mozambico con altrettanti Paesi stranieri- e 22 contratti pubblicamente accessibili sottoscritti con aziende private attive nel comparto fossile (petrolio, gas e carbone). “Tutti contengono una clausola Isds che consente all’investitore di avanzare richieste di risarcimenti per i danni subiti a causa di misure adottate da Maputo”, si legge nel report.

Tra le clausole più controverse ci sono le cosiddette stabilization clauses che “proteggono” gli investimenti delle aziende da cambiamenti nelle normative per tutta la durata del contratto impedendo, di fatto, l’approvazione di leggi che garantiscono una migliore tutela ambientale, i diritti umani e quelli dei lavoratori. Ci sono poi le cosiddette “clausole di equilibrio economico” e di ripartizione degli oneri, in base alle quali se una modifica della legge incide sugli interessi economici del concessionario, le parti devono concordare le modifiche necessarie da apportare ai contratti per ripristinare la posizione economica originaria dell’investitore.

“La conseguenza diretta di questi contratti è che ‘bloccano’ il Paese per tutta la loro durata, senza dare la possibilità al Mozambico di cambiare né il regime fiscale né il quadro legale -spiega ad Altreconomia Lea Di Salvatore, ricercatrice presso l’università di Nottingham e autrice dello studio-. E lo fanno per un periodo di tempo molto lungo dal momento che questi contratti hanno una durata media di circa 25 anni, durante i quali il Mozambico ha rinunciato alla possibilità di legiferare o di cambiare quelle normative che possano impattare sul profitto dell’investitore”.

Una situazione particolarmente allarmante e che segna l’impossibilità -di fatto-di una transizione energetica verso fonti rinnovabili del Mozambico dal momento che tutti i contratti analizzati sono stati siglati tra il 2000 e il 2019. Alcuni, inoltre, prevedono esplicitamente la possibilità di prolungare i termini come nel caso di una concessione firmata nel 2014 per lo sfruttamento per 25 anni di una miniera di carbone e che prevede di continuare l’attività per lo stesso periodo di tempo. Ovvero fino al 2064.

Altrettanto preoccupante è la questione fiscale. “Alcune clausole impediscono di cambiare il gettito fiscale derivante dallo sfruttamento di gas, petrolio e carbone da parte delle società -continua Di Salvatore-. Il Mozambico sta puntando su queste risorse per promuovere una crescita economica del Paese che però ancora non si è vista e difficilmente si vedrà perché, per come è regolamentata la tassazione, nelle casse statali finisce poco o nulla. Su diversi contratti è scritto chiaramente che modifiche in questo senso rappresentano una violazione dello stesso”.

Sfidare le società fossili e rimettersi al giudizio di un arbitrato internazionale può essere un azzardo rischioso. Non solo perché sono quelle che fanno più frequentemente ricorso agli Isds ma perché “la maggior parte dei casi relativi alle aziende fossili si risolvono con una decisione a loro favore -si legge nel rapporto ‘Investor-State disputes in the fossil fuel Industry‘ pubblicato nel 2021-. Questo è particolarmente evidente nel giudizio di merito, dove gli investitori hanno successo nel 72% dei casi”.

Difficile quindi pensare che il governo di Maputo possa sfidare le multinazionali fossili anche perché le potenziali passività Isds derivanti dai soli progetti petroliferi e del gas equivalgono, come detto, a 29 miliardi di dollari. Una cifra sufficiente a “coprire quasi un decennio di spese governative per il contrasto alla povertà e al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile”, evidenzia il report Billion-dollar exposure

“Questi rischi finanziari non fanno altro che aggiungere altra benzina all’incendio causato dai grandi progetti per l’estrazione di gas in Mozambico -ha commentato Daniel Ribeiro, di Justiça Ambiental-. I progetti hanno contribuito all’insicurezza e alla violenza nella regione e hanno provocato lo sfollamento delle comunità locali. Ora è chiaro che le argomentazioni economiche a favore del loro proseguimento non reggono”.

La questione degli accordi contrattuali diseguali tra Paesi fragili come il Mozambico e le multinazionali fossili europee e statunitensi è ancora più rilevante alla luce dell’annuncio da parte di TotalEnergies di voler riprendere al più presto i lavori per lo sviluppo del terminal per l’estrazione e la liquefazione del gas naturale in costruzione ad Afungi, nella provincia di Cabo Delgado, nel Nord del Paese.

Un progetto di enormi dimensioni sia economiche (l’investimento previsto è di 20 miliardi di dollari) sia per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente: se completato, infatti, porterà all’emissione in atmosfera tra i 3,3 e i 4,5 miliardi di tonnellate di carbonio. Una quantità persino più elevata rispetto alle emissioni annuali di tutti i 27 Paesi dell’Unione europea.

I lavori erano stati interrotti nel 2021 per “cause di forza maggiore” a seguito dell’attacco di miliziani islamisti che, tra agosto 2020 e marzo 2021, avevano preso il controllo di ampi territori della provincia di Cabo Delgado, comprese le città di Mocímboa da Praia e di Palma. Quest’ultima in particolare si trova a pochi chilometri dal sito estrattivo ci viveva buona parte dei dipendenti di TotalEnergies. La vicenda, peraltro, è al centro di una causa giudiziaria intentata da tre sopravvissuti all’attacco e dai familiari di quattro vittime nei confronti della società, che non avrebbe informato i subappaltatori dei rischi di possibili attacchi e non avrebbe predisposto piani di sicurezza o di evacuazione adeguati. I vertici dell’azienda hanno sempre respinto queste accuse, ma lo scorso 4 maggio i pubblici ministeri francesi hanno annunciato di aver aperto un’indagine preliminare sulla vicenda.

TotalEnergies è comunque pronta a riprendere il progetto: un impegno dichiarato a fine 2023 alla luce di un “chiaro miglioramento” delle condizioni di sicurezza nell’area, tale da rendere possibile la ripresa delle attività. Una posizione ribadita anche attraverso la pubblicazione da parte della società di un report secondo cui le strade tra le principali località di Cabo Delgado sarebbero sufficientemente sicure da permettere alle Ong di operare senza scorta.

Un ottimismo che però non viene condiviso dalle poche organizzazioni umanitarie presenti sul territorio. Il 5 gennaio quattro persone, tra cui un operatore sanitario di Medici senza frontiere (Msf), sono state uccise durante un attacco nel villaggio di Chibanga, distretto di Mocímboa da Praia, nella provincia di Cabo Delgado. Inoltre, nei primi mesi del 2024 oltre 80mila persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case a seguito degli attacchi commessi da gruppi armati, denuncia Msf in un documento pubblicato il 4 marzo.

A oggi l’unico impianto Gnl attivo nel Paese africano è la piattaforma offshore Coral South Flng, di proprietà dell’italiana Eni e che esporta gas dal novembre 2022. “Viene considerato un asset strategico per l’azienda e, di riflesso, anche per la sicurezza energetica dell’Italia-spiega ad Altreconomia Simone Ogno di ReCommon-. I dati però smentiscono questa retorica: da novembre 2022 a inizio 2023, infatti, solo due dei 58 carichi di gas naturale liquefatto partiti dalle coste del Mozambico sono arrivati nel nostro Paese. La maggior parte delle navi gasiere si dirige verso Paesi asiatici”.

La società di San Donato vorrebbe “duplicare” questo impianto ed è in fase di studio il progetto per la realizzazione di una seconda piattaforma, Coral North Flng. “Eni vorrebbe raccogliere entro quest’anno i finanziamenti necessari”, spiega Ogno. Tra gli istituti di credito in prima linea ci sono Intesa Sanpaolo e Unicredit, ed è proprio a loro che è indirizzata una petizione con relativa raccolta firme promossa da ReCommon in occasione delle assemblee degli azionisti, momenti importanti in cui le banche sono chiamate a rispondere pubblicamente delle loro scelte.

C’è poi un terzo progetto fossile che Eni promuove in collaborazione con la statunitense ExxonMobil, Rovuma Lng, per sfruttare i giacimenti scoperti davanti alla foce dell’omonimo fiume che segna il confine settentrionale con la Tanzania. Una volta a regime, avrà una capacità produttiva di 15 milioni di tonnellate all’anno di Gnl.

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