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Crisi climatica / Approfondimento

Le cause climatiche che vogliono bloccare i finanziamenti pubblici ai combustibili fossili

© Tania Malréchauffé - Unsplash

Le nuove strategie legali prendono di mira i finanziamenti destinati a progetti ad alte emissioni di CO₂ come l’espansione di pozzi di estrazione di petrolio e gas. Al centro ci sono le agenzie di credito all’esportazione (come l’italiana Sace). L’obiettivo è infatti frenare i flussi finanziari pubblici alle fossili e indirizzarli verso un’autentica transizione ecologica

Le cause legali sui cambiamenti climatici sono sempre più numerose in tutto il mondo e stanno diventando uno strumento di lotta politica della società civile e dei singoli cittadini per cercare di ottenere dai governi e dal settore privato azioni più incisive per il clima. Attualmente sono oltre duemila quelle in corso a livello globale e finora, per la maggior parte, sono state intentate per contestare la carenza delle politiche governative e aziendali nel contrastare gli impatti dei cambiamenti climatici, per denunciare obiettivi insufficienti di riduzione delle emissioni dei gas serra e per stabilire e affermare il diritto alla vita, alla salute, al cibo, all’acqua, a un ambiente sano, a un clima sicuro e il dovere dei governi e di altre entità di proteggere questi diritti.

Tra le nuove strategie di accusa che si stanno diffondendo ci sono quelle che vogliono impedire che finanziamenti pubblici, ma anche privati, vengano destinati a progetti ad alte emissioni di CO₂ come ad esempio l’espansione di nuovi pozzi di estrazioni di petrolio e gas. Il rapporto “Global trends in climate change litigation: 2023 snapshot” pubblicato nel giugno 2023 e frutto della collaborazione tra due istituti della London school of Economics and political science -il Centre for climate change economics and policy (Cccep) e il Grantham research institute on climate change– definisce questi come casi di “chiusura dei rubinetti”. Nel documento sono riportate 14 cause contro enti pubblici o istituzioni finanziarie statali (come le agenzie di credito all’esportazione) e 12 contro soggetti privati, tra cui banche e fondi pensione. L’obiettivo è impedire che i finanziamenti siano destinati a progetti o attività ad alto impatto ambientale o dannosi.

Le cause contro le istituzioni di proprietà o controllate dai governi, come le agenzie di credito all’esportazione (indicate anche con l’acronimo inglese Eca), sono in particolare pensate per indirizzare i flussi finanziari pubblici lontano dai combustibili fossili. Questi enti forniscono supporto a grandi progetti infrastrutturali in tutto il mondo attraverso coperture assicurative, garanzie, sovvenzioni e prestiti concessi a tassi spesso inferiori rispetto a quelli di mercato, in modo da ridurre i rischi finanziari per chi vuole realizzare i progetti e stimolare lo sviluppo di un certo tipo di infrastrutture strategiche in tutto il mondo. Molto spesso questo tipo di finanziamenti è destinato al settore energetico. Secondo il Public finance for energy database, creato dalla Ong Oil change international, le Eca sono i maggiori finanziatori pubblici di combustibili fossili al mondo: tra il 2019 e il 2022 hanno fornito un sostegno finanziario sette volte superiore ai combustibili fossili (circa 136 miliardi di dollari) rispetto ai progetti di energia pulita (circa 19 miliardi). Nello stesso periodo, l’Eca italiana Sace ha destinato circa nove miliardi ai combustibili fossili e 25 milioni alle rinnovabili.

“L’idea alla base di questa nuova ondata di cause è assicurare che i governi, quando spendono il denaro pubblico, prendano in considerazione l’impatto ambientale dei progetti da finanziare per assicurarsi che questi siano in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi su clima”, spiega ad Altreconomia Lorenzo Fiorilli, esperto legale che si occupa di finanza pubblica, mercati energetici e concorrenza per ClientEarth, organizzazione inglese che si impegna a tutelare i diritti delle persone e del Pianeta.

“Molti progetti non esisterebbero senza il supporto finanziario del pubblico perché sono troppo rischiosi. Tra questi ci sono quelli legati ai combustibili fossili. I casi giudiziari contro le Eca potrebbero impedire che gli Stati li finanzino. In questo modo, i rischi per gli investitori privati sarebbero troppo alti e il profitto più difficile, così il progetto potrebbe non essere sviluppato”. Per Fiorilli, lo scopo di queste cause è anche reindirizzare le risorse pubbliche verso la transizione ecologica: “L’effetto più concreto che possiamo avere è quello trasferire quel denaro nella direzione giusta, perché i governi devono essere i primi a prendere le decisioni corrette”.

I casi più recenti di questo tipo si sono verificati in Regno Unito, Australia, Mozambico, Brasile e Corea del Sud. L’anno scorso, l’associazione Friends of the Earth ha portato in tribunale l’Eca britannica per il suo investimento in un importante progetto di gas “naturale” liquefatto (Gnl) in Mozambico. Anche se la sentenza è stata favorevole per l’Eca, il caso ha avuto degli effetti positivi. “Ha portato a revisionare le politiche dell’Agenzia di credito e a introdurre misure più solide e robuste che escludono i progetti legati ai combustibili fossili dai finanziamenti, così come hanno migliorato la trasparenza nelle attività di rendicontazione dei progetti. Seguendo questo esempio anche altre agenzie europe, come quella francese e tedesca, hanno fatto la stessa cosa”, racconta Lorenzo Fiorilli. Questo almeno in teoria, poiché anche queste nuove procedure prevedono una serie di eccezioni.

Così, nonostante i numerosi impegni internazionali, firmati dalle principali banche multilaterali di sviluppo (Mdb), dai Paesi del G20 e recentemente anche dal G7, per porre fine ai finanziamenti pubblici internazionali nei confronti di progetti legati all’oil&gas miliardi di dollari continuano a fluire verso i combustibili fossili. Le cause climatiche hanno allora diversi obiettivi. “Possono servire, per esempio, a chiarire che cosa nello specifico prevedono gli accordi internazionali firmati o le leggi ambientali varate a livello nazionale e internazionale. Aiutano a rendere esplicito lo scopo di questi documenti e quello che deve essere fatto nel concreto- continua Fiorilli-. E inoltre servono a rendere gli Stati responsabili per quello che hanno firmato, un modo per far capire ai governi che quando sottoscrivono un accordo questo significa qualcosa”. Un valore riconosciuto anche dal report “Global Climate Litigation Report: 2023 Status Review”, pubblicato a luglio 2023 dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep), con il supporto del centro Sabin della Columbia Law school di New York che gestisce il Climate change litigation databases dove sono raccolte le informazioni sulle cause sul clima attualmente in corso in tutto il mondo: “Queste controversie sono un’importante via per gli attori per influenzare la politica climatica al di fuori dei processi formali dell’Unfccc”, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

I governi nazionali e subnazionali si sono impegnati a contrastare i cambiamenti climatici attraverso vari accordi internazionali e relative leggi o dichiarazioni politiche nazionali, ma le misure attuate sono ancora lontane dal raggiungere gli obiettivi. In risposta, singoli individui, bambini e giovani, donne e gruppi per i diritti umani, comunità, gruppi indigeni, organizzazioni non governative si sono rivolti a tribunali o altri organismi giudicanti, comprese le Nazioni Unite e i tribunali arbitrali, cercando di ottenere un aiuto. Il caso delle oltre duemila donne svizzere, le KlimaSeniorinnen Schweiz, ne è un esempio. Ad aprile la Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha giudicato la Svizzera responsabile di non aver assunto misure adeguate per fronteggiare i cambiamenti climatici, violando così il diritto al rispetto della vita privata e familiare (l’Articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

“Gli accordi internazionali e le cause climatiche sono due facce della stessa medaglia. Gli Stati hanno il dovere di eliminare i combustibili fossili per non superare il limite di 1,5 gradi di innalzamento della temperatura stabilito dall’Accordo di Parigi. Il finanziamento di attività dipendenti dai combustibili fossili non si allinea con questo dovere. La legge internazionale, attraverso le sentenze, vuole obbligare gli Stati a porre fine a questi finanziamenti -conclude Fiorilli-. I politici devono agire immediatamente e non domani”.

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