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Gas ed elusione fiscale: i trattati iniqui a danno del Mozambico

“Coral Sul” è l’impianto galleggiante di liquefazione di gas fossile di Eni per lo sfruttamento dell’omonimo giacimento, situato al largo delle coste del Mozambico © Archivio Eni

Gli accordi stretti dal Paese africano con una decina di Stati hanno causato una perdita di gettito fiscale di quasi 400 milioni di dollari solo nel 2021. L’inchiesta del centro di ricerca Somo. Tra le aziende interessate ci sarebbe anche Eni

Tratto da Altreconomia 260 — Giugno 2023

Un report pubblicato lo scorso marzo dal Centre for research on multinational corporations (Somo), rete di ricerca olandese che si occupa di indagare le attività delle principali multinazionali, in collaborazione con il Centro mozambicano per la democrazia e lo sviluppo (Cdd), mostra che la rete di trattati fiscali del Mozambico sta privando il Paese di centinaia di milioni di dollari di entrate ogni anno, a causa degli accordi con paradisi fiscali come Mauritius ed Emirati Arabi Uniti. Solo nel 2021 il Paese africano avrebbe perso circa 390 milioni di dollari.

Nel 2010 sono stati scoperti enormi giacimenti di gas nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, devastata dalla guerra, che hanno attirato investimenti miliardari da parte di multinazionali petrolifere come Total Energies ed Eni. A oggi il Mozambico ha ratificato dieci trattati fiscali, ma sono quelli con Emirati Arabi e Mauritius i più problematici che privano il Paese di entrate ingenti e necessarie. Jasper van Teeffelen, ricercatore di Somo e autore del report, sostiene che “la perdita di gettito fiscale dovuta a questi due trattati è di 315 milioni di dollari solo nel 2021. Si tratta di oltre il 7% del gettito fiscale totale del Paese, che avrebbe potuto essere speso per ospedali, scuole e altre infrastrutture pubbliche”. Pur essendo ricchissimo di risorse naturali, secondo l’Indice di sviluppo delle Nazioni Unite il Mozambico è uno dei Paesi più poveri del continente africano a causa di conflitti interni, alti tassi di mortalità e degrado ambientale.

Sono più di tremila gli accordi bilaterali previsti dal sistema fiscale internazionale, basati sul Modello di convenzione fiscale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), per evitare la doppia imposizione; questi prevedono una distribuzione dei diritti di tassazione tra le nazioni firmatarie. In estrema sintesi, gli accordi definiscono a quali condizioni ciascun Paese può tassare determinati redditi transfrontalieri e a quale aliquota. Tuttavia, la maggioranza degli Stati dispone già di una legislazione che regola la doppia imposizione e un numero crescente di ricerche del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che i trattati non sono uno strumento per attirare più investimenti, quanto piuttosto per eludere le imposte.

Il modello Ocse, che fa transitare i diritti di tassazione dal Paese fonte a quello destinatario dell’investimento, ha l’obiettivo, almeno in teoria, di creare relazioni economiche paritarie; eppure, la standardizzazione di questi modelli ha permesso ai Paesi più ricchi di intrattenere rapporti di investimento non uniformi con quelli più poveri, riducendo così notevolmente la capacità di quest’ultimi di tassare i redditi generati dagli investimenti esteri. In risposta alla natura svantaggiosa di questo modello, nel 1980 l’Onu ha introdotto il Modello di convenzione delle Nazioni Unite tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, che, con diverse riforme (l’ultima nel 2021) ha aumentato i diritti di tassazione alla fonte.

Nonostante la previsione di un meccanismo di tutela introdotto dalla comunità internazionale, sono diversi gli strumenti che gli Stati più ricchi continuano a utilizzare per aumentare i propri profitti a discapito di chi è destinatario degli investimenti. Gli investitori stranieri, anche se legalmente risiedono in uno Stato firmatario del Modello Onu, si servono di società intermediarie situate in paradisi fiscali che, a causa delle condizioni previste dai trattati, limitano di fatto la capacità del Paese ospitante di tassare il reddito generato da questi investimenti.

Emirati Arabi e Mauritius si posizionano rispettivamente al decimo e al quindicesimo posto tra i paradisi fiscali secondo Tax justice network, rete di ricerca che dal 2003 si occupa di giustizia fiscale, e sono definiti come hub di investimento offshore che consentono alle multinazionali di creare con facilità società letterbox (vale a dire una sede di recapito fittizia) facendo ricorso al cosiddetto treaty shopping e di azzerare così le imposte sul reddito delle società.

“Il Mozambico dovrebbe essere molto cauto nel firmare un trattato con i Paesi Bassi e assicurarsi che non eroda i suoi diritti fiscali” – Jasper van Teeffelen

Tornando al caso specifico oggetto dell’indagine di Somo, la legislazione fiscale nazionale del Mozambico prevede un’aliquota del 20% su interessi, dividendi e royalties derivanti dagli investimenti esteri; il trattato fiscale con Abu Dhabi, stipulato nel 2003 la riduce però a zero per le società registrate negli Emirati che investono nel Paese africano. Oltre all’escamotage che porta in alcuni casi a zero l’imposta per le società, Somo ricorda che esistono altre forme di elusione fiscale che i trattati possono facilitare, come la perdita della tassazione sui redditi acquisiti o l’elusione dell’imposta sulle plusvalenze, e le misure anti-abuso attualmente in vigore non sono sufficienti. Il Mozambico, infatti, prevede l’utilizzo di strumenti di autotutela solamente in due trattati fiscali su dieci, non in quelli con Emirati e Mauritius.

Ad attuare questi meccanismi elusivi ci sarebbe anche Eni. La concessione di gas “Golfinho” in Mozambico è gestita da due consorzi guidati da Total e un terzo, “Coral Flnf”, sotto la guida di Eni. Secondo il report, tutti i consorzi coinvolti utilizzano lo schema del treaty shopping, creando società di finanziamento negli Emirati Arabi per fornire prestiti ai progetti in Mozambico.

Emerge, poi, una seconda questione in cui Eni sarebbe coinvolta, vale a dire l’elusione delle imposte tramite la stipula di contratti con società senza un’organizzazione stabile (permanent establishment) nel Paese. Secondo il diritto internazionale, infatti, una società è soggetta al pagamento di imposte solo se opera continuativamente per un periodo minimo di tempo, ha una sede fisica e compie determinate attività. Società di servizi con sede negli Emirati, come Progeco NeXT, con cui Eni ha stipulato un contratto in Mozambico, si prestano facilmente a essere considerate senza una stabile organizzazione, e quindi non sono soggette al pagamento di alcuna tassa. Interpellata da Altreconomia, Eni non ha risposto nel merito a nessuna delle domande riguardo i suoi investimenti nello Stato africano, né sul ruolo delle società fittizie con sede in paradisi fiscali, create al solo scopo di eludere le imposte. Dopo una decina di giorni di silenzio, l’azienda ha dichiarato che “Eni, quale contribuente, opera nel pieno rispetto del quadro legislativo e fiscale locale e internazionale.

I progetti di Eni nei Paesi in cui è presente generano benefici economici e sociali a livello locale in termini di tasse, occupazione, formazione, progetti sociali. Inoltre, le linee guida in ambito fiscale di Eni assicurano una corretta interpretazione delle normative fiscali con il divieto di intraprendere operazioni fiscalmente aggressive.

L’aliquota prevista dal Mozambico su interessi, dividendi e royalties derivanti dagli investimenti esteri è del 20%. Il trattato fiscale con Abu Dhabi, stipulato nel 2003 la riduce però a zero per le società registrate negli Emirati che investono nel Paese africano

Il Mozambico, a seguito dei progetti a cui partecipa Eni, sta diventando un importante player mondiale nel campo del Gnl (il gas “naturale” liquefatto, ndr)”. Attualmente lo Stato africano sta negoziando un trattato con i Paesi Bassi, paradiso fiscale noto per aver consentito il treaty shopping e per aver negoziato aggressivamente basse aliquote di ritenuta alla fonte, proprio come Emirati Arabi e Mauritius. Secondo Jasper van Teeffelen “esiste il rischio che questo trattato danneggi ulteriormente i diritti fiscali del Mozambico” e privi il Paese di un gettito fiscale che il report di Somo stima essere superiore a 20 milioni di dollari all’anno.

“Insieme alla Cdd chiediamo al governo del Mozambico di rescindere o rinegoziare i trattati con Mauritius e gli Emirati Arabi, nonché di rivedere gli altri. Il governo di Maputo dovrebbe essere molto cauto nel firmare un accordo con i Paesi Bassi assicurandosi che questo non eroda i suoi diritti fiscali”, conclude il ricercatore. Somo e il Centro mozambicano per la democrazia e lo sviluppo hanno riservato delle raccomandazioni ai governi di Mozambico, Mauritius, Emirati Arabi e Paesi Bassi per suggerire l’adozione di una legislazione antielusiva e garantire un processo di negoziazione e ratifica dei trattati fiscali chiaro, trasparente ed equo per tutti gli Stati parte.

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