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Diritti / Intervista

I fondi per salvare il Servizio sanitario nazionale dalla deriva della privatizzazione

© Jesse Orrico - Unsplash

Un gruppo di esperti della sanità pubblica propone un intervento finanziario urgente per attuare una serie di misure radicali volte a preservare un intero sistema che è in conclamata difficoltà e così garantire cure adeguate e universali a tutti. Paolo Vineis, professore ordinario di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e tra i firmatari del documento, spiega punto per punto come provare a intervenire

Un piano straordinario di finanziamento a favore dei servizi di sanità pubblica per salvarli dalla lunga crisi che stanno attraversando, anche perché fortemente sottofinanziati. La proposta è circolata lo scorso aprile, promossa da un gruppo di operatori del servizio sanitario, medici, ricercatori, professori universitari, accademici dei Lincei che ha elencato in modo dettagliato quali sono gli interventi prioritari da attuare e, soprattutto, perché l’Italia “non può fare a meno del Servizio sanitario nazionale (Ssn)”.

Paolo Vineis, professore ordinario di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra e tra i firmatari del documento, spiega ad Altreconomia perché è preoccupato e teme che “sia in atto una lenta transizione verso la privatizzazione” del sistema. “Vogliamo richiamare l’attenzione dei politici, dei media e di tutta la cittadinanza su questo tema che per noi è cruciale”.

Professor Vineis, diversi appelli si sono susseguiti negli ultimi anni con l’intento di richiamare l’attenzione sui rischi che corre il nostro il Servizio sanitario nazionale. Da dove nasce l’esigenza, da parte sua e dei suoi colleghi, di scrivere questo documento adesso?
PV
Abbiamo pensato di sottoscrivere un documento che fosse descrittivo della situazione di difficoltà del sistema sanitario, che si traduce nell’incapacità del sistema di garantire adeguatamente i livelli essenziali di assistenza e di mantenere la sua natura originaria universalistica, ossia rispondere al bisogno sanitario di tutti i cittadini senza distinzione di reddito. Questa situazione è determinata dal fatto che il Servizio sanitario italiano è sottofinanziato: si prevede per il 2025 che la quota del Prodotto interno lordo (Pil) destinata alla spesa sanitaria sarà del 6,5%, mentre in altri Paesi avanzati è dell’8-9%, perfino il 10%. Noi siamo preoccupati soprattutto per il futuro, e temiamo che sia in atto una specie di transizione lenta verso la privatizzazione, che implica un incremento delle disuguaglianze sanitarie che già esistono tra Nord e Sud, per esempio, e poi tra classi sociali. Vogliamo richiamare l’attenzione dei politici, dei media e di tutta la cittadinanza su questo tema che per noi è cruciale.

In che cosa si manifesta quella che lei definisce la lenta transizione verso una privatizzazione del sistema?
PV Prima di tutto vediamo che c’è un aumento della spesa privata, solo in parte dovuta al rallentamento causato dell’emergenza Covid-19 che aveva creato un ingorgo nelle liste di attesa. È cresciuta quella che si chiama spesa out-of-pocket, ciò quello che le persone spendono direttamente di tasca propria per visite, esami e test. Si consideri che la spesa sanitaria del servizio nazionale è pari a più di 120 miliardi in totale, e quella privata è di circa 40 miliardi, quindi un terzo. In secondo luogo, temiamo che da questa tendenza possa orientare il sistema in direzione più privatistica. Vogliamo invitare a riflettere sui rischi che ci sono nel lasciare che il servizio sanitario vada alla deriva se non viene salvato con azioni radicali, ovvero aumentando la spesa sanitaria pubblica e l’appropriatezza delle prestazioni, quindi assicurando che siano fornite prestazioni efficaci e che hanno un impatto egualitario.

Tra i punti citati nel documento c’è il tema dell’assistenza territoriale, le case di comunità e gli altri servizi di questo tipo, il ruolo degli ospedali e dei medici di famiglia. Come, secondo il vostro parere, dovrebbero funzionare tutte queste cose insieme?
PV Ci sono vari passi potenziali che si possono fare. Uno che viene proposto da molti è l’integrazione dei medici di medicina generale all’interno del servizio sanitario nazionale, perché al momento sono dei liberi professionisti. Dovrebbero quindi definirsi migliori e più specifiche regole per definirne i rapporti con il resto del servizio sanitario. La questione delle case di comunità, degli ospedali di prossimità e di questo tipo di strutture territoriali -e del rapporto con gli ospedali veri e propri- va posta nel giusto contesto. L’ospedale è un luogo per il trattamento delle condizioni acute, un luogo ad alta tecnologia spesso molto costosa. Da questo punto di vista i percorsi diagnostico-terapeutici ad alta specializzazione dovrebbero essere il più possibile centralizzati, perché vi sono numerose prove del fatto che l’efficacia delle cure è tanto maggiore quanto maggiore è il numero di casi che il medico tratta. Non ha senso che ci siano reparti in cui viene fatto un intervento chirurgico per il cancro della mammella ogni sei mesi. Da un lato ci dovrebbe essere quindi più centralizzazione dei servizi ad alta specializzazione, dall’altro però dovrebbero essere create strutture più vicine alle persone, che siano intermedie tra il medico di medicina generale e l’ospedale e che soprattutto siano efficaci nell’assistenza di lungo periodo, cioè tutto ciò che deve essere fatto dopo l’ospedalizzazione. Quindi la riabilitazione e altri aspetti legati alla cronicizzazione della malattia. Per fare un esempio, i diabetici richiedono molta assistenza per un lungo periodo di tempo, perché hanno tanti problemi legati al sistema vascolare, alle cardiopatie, a disturbi renali, oculari, e così via. Tutto questo non può essere garantito soltanto dal medico di medicina generale e non deve necessariamente comportare un’ospedalizzazione. Di qui l’importanza di strutture intermedie coordinate tra loro e con l’ospedale. C’è poi il problema dell’assistenza agli anziani con problemi di non-autosufficienza, che può essere largamente delegata all’assistenza infermieristica domiciliare. Se i soldi che vengono utilizzati per le badanti venissero utilizzati per istituire un sistema ben strutturato di long term care, ci sarebbero molti vantaggi anche perché non sempre le badanti sono qualificate per un certo tipo di assistenza sanitaria.

Scrivete inoltre che c’è anche l’esigenza di fare “delle scelte politiche trasparenti basate su prove scientifiche, su quali prestazioni garantire e quali limitare”. Ci sono delle prestazioni che non dovrebbero essere garantite dal Ssn?
PV Il mio parere personale è che in una situazione di carenza, il sistema dovrebbe garantire prima di tutto le prestazioni che sono di provata efficacia, cioè che aumentano la speranza e la qualità della vita. Ed escludere quelle legate ad alcune patologie sfuggenti, come la sindrome da affaticamento cronico e la fibromialgia, per le quali i sintomi sono soggettivi e non c’è nessun test del sangue o esame per diagnosticarle. C’è anche un problema di inappropriatezza delle prescrizioni. Si calcola che circa 30-40% dei test diagnostici prescritti non siano appropriati. È un problema complicato perché ci vorrebbero linee guida precise, e quelle che ci sono spesso non vengono applicate. Ed è una questione di negoziazione tra il paziente e il medico, che porta i medici ad eccedere nel prescrivere prestazioni, per paura di ricevere denunce (la “medicina difensiva”).

Per quanto riguarda la ricerca e l’innovazione, da una parte sottolineate la necessità di investire di più in ricerca e dall’altra suggerisce di modificare i rapporti con le industrie per quel che riguarda i rimborsi da garantire alle aziende per la produzione di farmaci e trattamenti innovativi. Mi spiega come si legano queste due cose?
PV L’idea in generale, anche dopo l’esperienza del Covid-19, è che lo Stato debba avere una funzione di garanzia per i cittadini nel pianificare la risposta ai problemi che emergeranno. Questo vuol dire assicurare e programmare la ricerca su problemi che possono non essere convenienti per l’industria farmaceutica, come le malattie tropicali neglette che non attirano finanziamenti e ricerche perché non remunerative in quanto i Paesi in cui sono diffuse non hanno le risorse per acquistare i farmaci. Lo Stato però non può fare interamente tutta la ricerca medica. Allora il Servizio sanitario nazionale e le sue emanazioni, cioè l’Istituto superiore di sanità oppure istituti di ricerca prestigiosi come il Mario Negri, devono avere una funzione strategica, identificare quali sono i fabbisogni e le risposte, anche creando nuovi modelli di business con l’industria. Di qui la necessità del ruolo dello Stato che può, per esempio, anticipare i soldi, comprare delle quote di farmaci o di vaccini in anticipo.

Il ministro della Salute, Orazio Schillaci © governo.it

E poi c’è la prevenzione, il settore meno finanziato del Servizio sanitario.
PV C’è una certa confusione su che cosa sia prevenzione. Spesso nei documenti medici o politici per prevenzione si intende quella secondaria (la diagnosi precoce). Ciò porta a una certa deriva pericolosa, cioè, fare più esami di screening che invece devono essere fatti a condizioni molto precise, quando servono a migliorare la prognosi di una malattia. La prevenzione è soprattutto evitare l’esposizione a fattori di rischio. Probabilmente almeno metà dei casi di diabete potrebbero essere evitati con attività preventive che riguardano l’alimentazione e l’attività fisica. L’Italia ha una delle frequenze di obesità infantile più alte in Europa, e ciò significa che nei prossimi decenni ci saranno tanti adolescenti e adulti obesi, a rischio di diabete. La prevenzione diventa allora assolutamente decisiva, a partire dal promuovere l’attività fisica nelle scuole e continuando a migliorare l’alimentazione. Parte della spesa sanitaria potrebbe essere ridotta proprio prevenendo le malattie come diabete, obesità, malattie cardiovascolari, cancro.

Un’altra forma di prevenzione in salute sono le politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici, vale a dire di riduzione delle emissioni. Nei suoi studi definisce questo nesso come “politica dei co-benefici sanitari”. Di che cosa si tratta?
PV In estrema sostanza si può dire che molti degli interventi di prevenzione hanno un effetto positivo sul cambiamento climatico e viceversa. Usare meno l’automobile e di più i mezzi pubblici, fare più strada a piedi o in bicicletta, aumentano la quota di attività fisica svolta dalle persone con effetti positivi sull’obesità ma anche alla riduzione dei gas serra. Anche l’alimentazione, la dieta mediterranea, quella vegetariana, hanno effetti positivi sulla salute e sulla riduzione delle emissioni derivanti dalla produzione di carne. Se diabete e obesità sono già un problema enorme di sovraccarico del sistema sanitario, a questo si aggiunge il riscaldamento globale che per il momento vuol dire soprattutto le ondate di calore, durante le quali aumentano enormemente le ospedalizzazioni soprattutto degli anziani e delle persone fragili. C’è poi un problema, ancora abbastanza limitato, di malattie infettive che arrivano in Italia come la dengue o la Chikungunya e che sta aumentando anche a causa dei cambiamenti climatici.

Fatte tutte queste considerazioni, che conseguenze può avere l’autonomia differenziata sul Servizio sanitario?
PV Noi siamo fortemente contrari all’autonomia differenziata. È importante per me chiarire che l’uguaglianza tra i cittadini, ovunque essi risiedano, non è soltanto un valore in sé ma ha anche un valore tecnico-scientifico. Un cittadino che riceve cure tardive perché non accede allo screening per il cancro è un cittadino che alla fine finisce per costare di più al sistema e alla comunità. È nell’interesse della collettività garantire assistenza sanitaria uguale per tutti, efficiente ed efficace. Il fatto che la sanità del Sud funzioni piuttosto male -con grandi centri di eccellenza che fanno eccezione- porta a una forte migrazione sanitaria che ha costi enormi sia economici sia personali, e comporta comunque un ritardo diagnostico, un ritardo terapeutico e un costo per la collettività. In un regime di autonomia differenziata si acuiscono questi problemi. Se nel sistema attuale le Regioni più ricche contribuiscono, attraverso un’integrazione attraverso il sistema fiscale, a mantenere in piedi un sistema omogeneo a livello nazionale, con la proposta approvata dalle Camere i contributi per i servizi sanitari regionali saranno proporzionali alle erogazioni fiscali delle diverse Regioni e dunque la funzione di redistribuzione verrà meno. Noi siamo convinti che i livelli essenziali di assistenza, devono continuare a essere garantiti in modo uguale in tutte le Regioni.

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