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Espropri, sfratti e demolizioni: a Lisbona la crisi abitativa continua

La fine della dittatura nel 1974 ha visto l’accelerazione dell’espansione di Lisbona. Per far fronte alla carenza di alloggi gli abitanti della città hanno iniziato ad autocostruire le proprie abitazioni e a occupare gli edifici in costruzione abbandonati © Giacomo Sini e Dario Antonelli

Con la scusa di migliorare la qualità della vita delle persone, le autorità allontanano i residenti storici dei quartieri autocostruiti nelle periferie e gli inquilini dei palazzi occupati in centro. Il nostro reportage

Tratto da Altreconomia 270 — Maggio 2024

Una spianata si apre tra i palazzi popolari. Del Bairro Jamaica a Seixal, nella regione di Lisbona, non rimane che qualche muro e un edificio sventrato ma ancora abitato. Una vecchia auto scura aggira una grande pozzanghera e si ferma: “Hanno buttato giù tutto, restano solo quei due blocchi -indica l’uomo alla guida sporgendosi dal finestrino-. In quello a destra sono rimaste ancora delle famiglie con bambini. Provano a dare delle soluzioni alternative, non è come una volta, quando sgomberavano e basta. Ma Jamaica è la nostra casa, vogliamo rimanere qui”. 

Negli ultimi anni a Lisbona è esplosa una vera e propria crisi abitativa, ma in città la questione della casa è storicamente segnata dal fenomeno dei quartieri occupati e autocostruiti, nel centro come nelle periferie. A metà degli anni Ottanta è nato così il Bairro Jamaica, quando persone senza casa occuparono alcuni edifici lasciati incompiuti dopo il fallimento dell’azienda che li stava costruendo. 

Una vicenda comune in quegli anni. Il 1974, con la fine della dittatura e il crollo dell’impero coloniale portoghese, aveva visto l’accelerazione dell’espansione di Lisbona iniziata nei decenni precedenti. Per far fronte alla mancanza di abitazioni sono nati quartieri autocostruiti nelle periferie e venivano occupati edifici fatiscenti nel centro della capitale. 

“Gli sgomberi e le demolizioni del Bairro Jamaica seguono il ‘Piano di ricollocamento speciale’ che risale al 1993, ma al tempo poche famiglie furono trasferite”, spiega Ana Rita Alves, ricercatrice all’Università di Coimbra e attivista. Nel 2017 è stato avviato un nuovo programma di ricollocamento. Le autorità motivano questi piani con l’insalubrità dei bairros, ma per la ricercatrice si tratta di una giustificazione strumentale: “Rispondono alla costruzione di un modello di città orientato alla finanziarizzazione e di sviluppo urbano piuttosto che all’urgenza di migliorare la vita delle persone”. 

In quest’ottica, secondo Alves il caso del Bairro Santa Filomena è esemplare: sgomberato tra il 2012 e il 2015 e venduto per 47 milioni di euro per liberare superfici su cui in futuro potrebbero essere costruite case per la classe media. In tutti questi casi “non erano gli abitanti a chiedere di lasciare i quartieri dove vivevano, ma lo Stato a volerli mandar via -chiarisce-. Tutti devono avere un’abitazione degna, ma questa è esclusione: i terreni su cui sorgono le case spesso sono di proprietà degli abitanti, che vengono espropriati e ricollocati in quartieri che non hanno scelto, pagando un affitto che aumenta sempre di più”. 

“Vent’anni di disumanizzazione e razzismo rendono impossibile per la società riconoscere gli abitanti di questi quartieri come vittime  di sopraffazione” – Ana Rita Alves

Questi sgomberi, che gli attivisti hanno più volte denunciato come violenti, non provocano però moti generali di indignazione: “Vent’anni di razzismo e disumanizzazione -conclude Alves- rendono impossibile per la società riconoscere gli abitanti di questi quartieri come vittime di sopraffazione”.

Le vicende del Bairro Jamaica sono un chiaro esempio dell’impatto sociale della crisi abitativa nell’area di Lisbona secondo Francesco Biagi, attivista del collettivo Stop despejos. Qui l’ultima grande operazione di sgombero c’è stata il 17 ottobre 2023. “Quel giorno la militarizzazione del quartiere è stata terribile: amici, familiari, solidali e giornalisti sono stati tenuti lontani dalla polizia -racconta Francesco-. A circa il 30% degli abitanti di uno dei lotti sgomberati è stata negata la possibilità di cambiare alloggio, e diverse famiglie con bambini piccoli sono state lasciate per strada”. 

© Giacomo Sini e Dario Antonelli

Questo accade anche nei quartieri autocostruiti più recenti: “Ci sono state violente demolizioni anche a Talude, vicino all’aeroporto, dove gli abitanti, in gran parte rom, sono lasciati senza soluzioni alternative degne”, continua l’attivista. Completa il quadro la situazione del centro della capitale “in mano a fondi immobiliari internazionali -spiega Francesco- che preferiscono tenere le abitazioni vuote”. Secondo le stime di Stop despejos, sarebbero circa 45mila quelle sfitte nella sola area del Comune di Lisbona.

“Sono stata sfrattata insieme a mio marito, malato oncologico, e mio padre di 89 anni. Ora dormiamo in un Alojamento local affittato grazie a una vicina” – Alcina Lourenço

“Quando sono arrivato a Lisbona nel 2011 non c’era lavoro ma era pieno di case che costavano pochissimo”, racconta Antonio Gori, membro del collettivo, che incontriamo presso il centro sociale Sirigaita nel quartiere di Arroios. A seguito della grave crisi economica che quell’anno ha colpito il Portogallo, il governo cerca uno sbocco nell’apertura al turismo e ai fondi immobiliari. “La svolta è arrivata con la legge ‘Cristas’ nel 2012 -spiega Gori- che ha cambiato radicalmente il regime degli affitti eliminando ogni criterio di durata minima del contratto e ha creato un organismo per accelerare gli sgomberi”.

Le elezioni legislative portoghesi del 10 marzo scorso, seguite alle dimissioni del governo guidato dal socialista António Costa, ha consegnato la maggioranza parlamentare alla coalizione di destra Alleanza democratica -composta da socialdemocratici, popolari e monarchici- che a inizio aprile ha formato il nuovo governo. “Questo cambia lo scenario politico -continua Gori-. Si prevedono ancora meno spazi di negoziazione per i movimenti e il ministero della Casa sarà di nuovo accorpato a quello delle Infrastrutture”. L’attivista non crede che vi sarà una discontinuità, semmai un peggioramento: “Ci aspettiamo nuove costruzioni, incentivi fiscali alla speculazione, attrazione di investimenti stranieri.”

Le abitazioni nell’area del Comune di Lisbona che vengono lasciate sfitte dai proprietari sarebbero circa 45mila. La stima è stata elaborata dal collettivo “Stop despejos” che chiede la fine degli sfratti nella capitale portoghese

Nel Paese il salario minimo è di 760 euro mensili, ma nel 2021 il 16,4% dei portoghesi viveva con meno di 554 euro al mese e gli affitti di solito superano queste cifre. In molte città europee l’industria del turismo e la speculazione hanno espulso gli abitanti dai centri urbani. A Lisbona però questo processo è avvenuto in modo particolarmente accelerato e violento, imponendosi in una realtà già marcata da profonde diseguaglianze. 

In poco più di un decennio il centro della città e alcuni quartieri storici (abitati da popolazione povera, nera, rom o immigrata, dove antichi edifici crollavano e le condizioni di vita erano molto precarie) sono stati trasformati profondamente e larga parte dei loro residenti sono stati espulsi. “Alojamento local” si legge accanto al portone di alcuni edifici dai colori brillanti e dagli infissi nuovi: sono le case per turisti o per destinate agli affitti brevi. 

“Sono stata sfrattata insieme a mio marito, malato oncologico, e mio padre di 89 anni. Ora dormiamo in un Alojamento local affittato grazie a una vicina” – Alcina Lourenço

“Fino a sei o sette anni fa -racconta Antonio- la lotta per la casa era focalizzata sul contrasto agli sgomberi dei quartieri autocostruiti e sulla richiesta di condizioni di vita degne nelle periferie. Dal 2017, invece, si è cercato di mettere al centro la lotta agli sfratti anche nelle zone centrali”.

Alcina Lourenço, una donna dallo sguardo duro, racconta davanti all’Assembleia municipal di Lisbona la sua vicenda: “Lo scorso giovedì sono stata sfrattata insieme a mio marito, malato oncologico, e mio padre di 89 anni. Ora dormiamo in un Alojamento local affittato fino a sabato prossimo, grazie alla solidarietà di una vicina e alla raccolta fondi organizzata da Stop despejos”. 

Il salario minimo mensile in Portogallo è di 760 euro. Ma nel 2021 il 16% della popolazione viveva con meno di 554 euro. Una cifra insufficiente per coprire il costo di un affitto sul libero mercato

Fin da quando aveva sei anni la donna ha sempre vissuto insieme alla zia, titolare del contratto d’affitto dell’appartamento il cui canone era fissato ad appena 30 euro al mese, per motivi sociali. I contratti stipulati prima del 1990 non possono essere modificati, ma se per qualche motivo decadono, il proprietario dell’appartamento ha mano libera. In questo caso, alla morte della zia il proprietario ha chiesto lo sfratto, sebbene Alcina avesse la possibilità di pagare un canone fino a 700 euro. La donna racconta di non aver ricevuto nessuna proposta alternativa, come invece previsto dalla legge: “Il nostro reddito familiare è di 1.200 euro al mese -prosegue- a questa cifra è impossibile trovare un alloggio adeguato. Dove dormiremo a partire da sabato?”. 

La storia di Alcina è simile a quella di migliaia di altre persone, sfrattate perché i proprietari delle loro abitazioni vogliono affittare ai turisti, ai digital nomads, oppure sono pronti a vendere a fondi immobiliari. Attraversando Lisbona diretti verso il fiume Tago il cambiamento della città è evidente: interi palazzi occupati solo al piano terra da ristoranti, negozi di lusso o grandi marchi, completamente deserti ai piani superiori. 

In Rua Arroios 37, dove viveva Alcina il portone del palazzo è chiuso, all’interno le luci sono accese, solo un appartamento è buio e con le finestre serrate. 

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