Diritti / Attualità
Prendersi cura delle persone. Viaggio tra gli ambulatori popolari
Gestiti da medici volontari, garantiscono il diritto alla salute per le fasce svantaggiate della popolazione. Nella pandemia stanno fornendo assistenza di base a chi ne è sprovvisto. Da Bologna ai presidi della Calabria
“Facciamo circa 1.300 visite al mese. Si rivolgono a noi soprattutto cittadini calabresi che non hanno le risorse economiche per pagare il ticket o la visita privata”. Sono decine le persone che ogni giorno si affidano ai Centri di Medicina Solidale di Reggio Calabria. Qui Lino Caserta -gastroenterologo e fondatore dell’associazione Ace– offre insieme ad altri medici visite gratuite a chi non può permettersi di aspettare le lunghe liste d’attesa del servizio pubblico né pagare un professionista privato. In Calabria il servizio sanitario regionale è commissariato da più di dieci anni. La gestione centrale affidata ai commissari ha l’obiettivo di ridurre i debiti accumulati dalla Regione ridimensionando le spese. Così negli anni sono diminuiti ospedali, posti letto e personale. Durante l’emergenza Covid-19, è mancata in Calabria e nella maggior parte delle Regioni italiane una buona organizzazione delle Asl e dei medici di famiglia, in grado non solo di gestire i casi di Covid-19 meno gravi ma anche le persone con altri problemi di salute. La pandemia ha messo in evidenza l’importanza della medicina territoriale. E a cercare di fornire l’assistenza sanitaria di base a chi ne è rimasto senza ci hanno pensato anche gli ambulatori di medicina popolare come Ace.
Nei mesi del lockdown il Naga di Milano ha continuato le sue attività, non solo sanitarie ma anche informative, producendo opuscoli con le misure contenute nei Dpcm
Durante il lockdown i Centri di Medicina Solidale sono rimasti chiusi a causa delle restrizioni imposte dal governo. Per la riapertura di maggio, l’ambulatorio ha dovuto riorganizzarsi per garantire il rispetto di tutte le misure di sicurezza anti-Covid-19. Il numero di visite è sceso anche per scelta dei pazienti -spiega Caserta- che per paura di contrarre Covid-19 hanno preferito rimandare quelle non strettamente necessarie: “Il problema in questo momento, non solo qui da noi, è l’arrivo di pazienti con patologie avanzate, diagnosticate in ritardo perché a marzo non eravamo attivi”.
In tutta Italia ci sono molti ambulatori come quello di Reggio Calabria. Sono nati per garantire il diritto alla salute e alla cura alle fasce di popolazione svantaggiate come stranieri senza regolare permesso di soggiorno, persone senza fissa dimora o indigenti. In forma volontaria medici, infermieri, personale socio-sanitario e attivisti mettono a disposizione di chi ne ha bisogno tempo e competenze. Nonostante l’epidemia ne abbia limitato le attività, molti ambulatori hanno continuato a operare per assistere le persone che, a causa della loro condizione di fragilità, erano ancora più a rischio durante l’emergenza. Il Naga di Milano è uno degli ambulatori presenti da più tempo in Italia, attivo dal 1987. Al suo interno 60 medici volontari effettuano ogni anno circa diecimila visite agli stranieri senza permesso di soggiorno. Secondo la legge, gli “irregolari” hanno diritto all’assistenza sanitaria dopo il rilascio del codice Stp (Straniero temporaneamente presente) ma in Lombardia non esistono ambulatori destinati a queste persone all’interno del sistema regionale. Gli stranieri possono accedere al servizio sanitario solo tramite pronto soccorso: “Non il posto migliore cui rivolgersi quando non c’è una situazione urgente”, commenta Fabrizio Signorelli, medico e direttore sanitario del Naga. “E se lo straniero irregolare ha bisogno di un farmaco? Deve andare in pronto soccorso. Ma chi ha il diabete, non può tornare lì ogni mese a farsi prescrivere l’insulina”. Covid-19 ha reso l’accesso al pronto soccorso ancora più difficile, così sono gli ambulatori come il Naga che hanno fornito agli irregolari l’assistenza di base. Anche se a turni ridotti, durante il lockdown, l’ambulatorio ha continuato le sue attività non solo sanitarie ma anche informative, producendo opuscoli con le misure contenute nei Dpcm tradotte in diverse lingue. Nei primi mesi l’affluenza è diminuita: “Ho l’impressione che gli irregolari abbiano più paura di noi italiani perché si rendono conto che le loro possibilità di protezione sociale sono quasi inesistenti”, continua Signorelli. Molti pazienti del Naga vivono per strada o all’interno di appartamenti con altre persone. L’autoisolamento domiciliare è difficile (o impossibile) in certe condizioni. Non potendo fare tamponi quando i medici del Naga si trovano di fronte a sintomi riconducibili al Covid-19 si affidano al pronto soccorso.
Mentre a Milano i volontari hanno affrontato l’emergenza con più di 30 anni di esperienza alle spalle, a Bologna la pandemia è arrivata dopo pochi mesi dall’apertura del Laboratorio di salute popolare (Lsp). Il lockdown ha costretto inizialmente gli attivisti a fermare le attività. L’opportunità di ripartire si è presentata poco dopo grazie alle staffette alimentari partigiane, gli attivisti che percorrono in bicicletta la città per consegnare beni alimentari a persone senza fissa dimora e famiglie in difficoltà. Per i medici del laboratorio è stata un’occasione per intercettare le persone più fragili, distribuire loro mascherine e gel sanificanti, spiegare quali comportamenti adottare per prevenire il contagio. Ma è stato anche un modo per informare sull’ambulatorio Lsp, aperto all’interno degli spazi del collettivo Làbas nel centro storico di Bologna. Nonostante l‘apertura recente, il progetto è guidato da un’idea precisa di salute: “Non vogliamo che si riduca esclusivamente alla pratica clinica. La salute fisica è solo la punta dell’iceberg di una serie di condizioni che determinano la vita delle persone”, spiegano Delia Da Mosto e Davide Miccoli, due giovani medici e attivisti del Lsp. Una visione globale di salute che accompagna tutte le attività del laboratorio: “Il nostro approccio segue la teoria dei determinanti sociali della salute: vogliamo agire sulle cause sociali che creano disuguaglianze tra le persone, anche in salute”. Da qui l’idea di collaborare con altre realtà del territorio: “Collaboriamo con una mensa che consegna cibo ai senza fissa dimora, con gli avvocati di strada e con le altre realtà che sono all’interno di Làbas. Facciamo soprattutto orientamento ai servizi, sia sanitari sia sociali, per aiutare le persone ad accedere a un medico di base o a trovare una casa”, spiegano i due medici.
“Il nostro obiettivo non è sostituirci al sistema sanitario ma costruire un modello di medicina alternativo, più vicino alle esigenze del territorio” – Gli attivisti di “Je so’ Pazzo”
Anche a Napoli, l’ambulatorio dell’ex ospedale psichiatrico (Ex Opg) Occupato “Je so’ Pazzo” ha sospeso quasi tutte le attività durante il lockdown. “Alcuni sportelli hanno continuato a funzionare per via telematica -raccontano gli attivisti ad Altreconomia-. Soprattutto quello di ascolto, per il supporto psicologico, ha ricevuto moltissime richieste anche nei mesi di riapertura”. Nel periodo più critico di chiusura, medici e attivisti dell’ex ospedale psichiatrico occupato hanno organizzato una raccolta fondi per la distribuzione di pacchi alimentari e dispositivi di protezione individuale. “I medici di base, come quelli ospedalieri, facevano fatica a trovare le mascherine. Noi siamo riusciti ad acquistarle e le abbiamo donate agli studi medici del quartiere. Loro poi si sono preoccupati di consegnarle ai pazienti che ne avevano bisogno. Abbiamo distribuito mascherine anche ai lavoratori dei supermercati e a tutti coloro che potevano trovarsi in situazioni di affollamento”. Il centro sociale “Je so’ Pazzo” si trova in un quartiere popolare di Napoli, il Materdei, dove la maggior parte degli ambulatori e degli ospedali è stata chiusa: “Le politiche sanitarie regionali degli ultimi anni hanno portato a una riduzione dei servizi territoriali. Il nostro obiettivo non è sostituirci al sistema sanitario ma costruire un modello di medicina alternativo, più vicina alle esigenze del territorio”.
Per l’Ambulatorio popolare di Barletta, in Puglia, la pandemia ha provocato un aumento delle persone in difficoltà. Inaugurato nell’autunno 2018, assiste ex detenuti, persone senza fissa dimora e nuclei familiari a basso e bassissimo reddito, italiani e migranti. Il presidente Cosimo Matteucci collabora con circa 80 persone, tutti volontari: “La finalità dell’ambulatorio è praticare il mutualismo, cerchiamo di tirare le persone fuori dalle condizioni in cui si trovano”. Da marzo 2020 è stata rafforzata la raccolta dei prodotti: “Raccogliamo dagli abitanti della città alimenti, vestiti e beni di prima necessità come pannoloni, assorbenti ma anche mascherine. E poi tutto l’invenduto da bar, pasticcerie e altri negozi, consegnando strada per strada, quartiere per quartiere con il nostro trolley a chi ne ha bisogno”. La sede dell’associazione si trova nel centro della città, alle spalle del municipio. Durante il lockdown ha garantito le cure di primo accesso: “Quando è stato possibile abbiamo rimandato i pazienti dagli specialisti -dentisti, ginecologi, cardiologi e gastroenterologi- che hanno dato disponibilità a fare visite gratuite nei loro studi privati”.
Ognuna di queste realtà pone l’attenzione su un’idea diversa di sanità. Per Lino Caserta si tratta di cogliere le sfide lanciate dalla pandemia e attuare un nuovo modello di salute. Sorgerà per questo ad Arghillà, uno dei quartieri più difficili di Reggio Calabria, un nuovo ambulatorio di medicina solidale grazie al sostegno della fondazione Vismara di Milano: “Un ambulatorio delle pandemie dove affrontare in modo complesso non solo le malattie virali ma anche quelle croniche perché, come Covid-19, colpiscono soprattutto le fasce più povere”. Spiega il fondatore di Ace: “Faremo prevenzione e interventi di salvaguardia dell’ambiente. Vogliamo recuperare l’area intorno all’ambulatorio e creare uno spazio verde”. Per tutti i centri la salute è un tema di rivendicazione politica. “Chiediamo che vengano istituiti ambulatori pubblici per stranieri senza permesso di soggiorno. La nostra azione è stata concepita fin dall’inizio come momentanea, ci aspettiamo che un giorno non servirà più”, afferma Sabina Alasia, presidente del Naga di Milano. Gli attivisti del Lsp sono scesi più volte in piazza a Bologna negli scorsi mesi. Stanno anche raccogliendo le richieste delle persone che si sono rivolte a loro: “Abbiamo un’idea precisa di come dovrà essere la normalità dopo la pandemia e corrisponde all’idea di giustizia sociale che avevamo prima che la pandemia portasse alla luce tutte le criticità di un sistema fallato. Per questo non chiediamo solo “tamponi per tutti” e “accesso a servizi sanitari per tutti”. Ma reddito, welfare, casa e anche salute per tutti, perché ognuno di questi temi è strettamente connesso agli altri”.
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