Diritti / Approfondimento
Ricerca pubblica europea: il voto del Parlamento non scioglie il nodo dei brevetti
Le raccomandazioni della commissione speciale Covi contengono il progetto di un’infrastruttura pubblica europea e sottolineano la necessità di migliorare la preparazione alle crisi sanitarie. Ma restano contraddittorie sul tema dei brevetti, come spiega il professor Massimo Florio del Forum disuguaglianze e diversità
Il 12 luglio il Parlamento europeo ha votato il testo finale della relazione sulla pandemia da Covid-19 preparato dalla Commissione speciale Covi. Il documento, intitolato “Pandemia di Covid-19: insegnamenti tratti e raccomandazioni per il futuro”, è una valutazione sull’efficacia delle misure europee e nazionali adottate durante l’emergenza e contiene anche una serie di raccomandazioni per migliorare la gestione delle crisi e la preparazione dell’Unione europea alle future emergenze sanitarie.
Il testo suddivide l’azione futura in quattro pilastri principali: salute, democrazia e diritti fondamentali, aspetti sociali ed economici e risposta globale alla pandemia. Riconosce che l’Europa era impreparata ad affrontare la pandemia e chiede di rafforzare i servizi sanitari di base, in particolare l’assistenza primaria, e il monitoraggio epidemiologico, destinando un pacchetto di investimenti specifico per promuovere il settore dell’assistenza e anche quello della ricerca e sviluppo. Il Parlamento chiede inoltre maggiore e migliore coordinamento tra gli Stati e più trasparenza nelle negoziazioni con le aziende farmaceutiche, sollecitando la definizione di regole chiare.
Tra le raccomandazioni chiave del testo ci sono quelle orientate a rafforzare l’autonomia strategica dell’Ue in tema di medicinali, anche per prevenire eventuali carenze di farmaci in futuro. Una di queste è la proposta di creare un’infrastruttura pubblica europea che sviluppi vaccini e farmaci, nata all’interno del Forum disuguaglianze e diversità (ForumDD) e di cui è promotore Massimo Florio, docente dell’Università Statale di Milano presso il Dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi.
“Il rapporto è stato approvato con una maggioranza larga e 385 voti a favore ma dopo una battaglia in aula sugli emendamenti. Il testo alla fine contiene anche la proposta numero 601, quella che raccomanda la creazione di un’infrastruttura europea che faccia vaccini senza fini di lucro e che copra le aree di ricerca in cui le società farmaceutiche sono assenti -spiega Florio ad Altreconomia.- Un’infrastruttura come quella che c’è negli Stati Uniti, il National institute of health (Nih) diretto da Anthony Fauci per intenderci, che sia a tutti gli effetti pubblica e federale e che superi nazionalismo e localismo”.
Il Rapporto è arrivato dopo oltre un anno di lavoro della Commissione speciale Covi, durante il quale si sono susseguite audizioni pubbliche, seminari e missioni in loco, consultazioni con esperti, responsabili politici dell’Ue e di organizzazioni internazionali, epidemiologi, ministri della Salute, aziende farmaceutiche, operatori sanitari e ricercatori.
Il professor Florio ha contribuito a questo processo attraverso la realizzazione di uno studio, in collaborazione con Simona Gamba (Università di Milano) e Chiara Pancotti (Centro studi industria leggera, Csil), che ha stimato quali investimenti le imprese e gli Stati, quindi il privato e il pubblico, abbiano realizzato per sviluppare nove dei vaccini contro il virus Sars-CoV-2, prima di sapere che funzionassero (quindi investimenti “a rischio”).
Secondo le stime di Florio le imprese hanno destinato investimenti pari a cinque miliardi di euro per ricerca e sviluppo e 11 miliardi per la produzione prima dell’autorizzazione da parte delle agenzie di controllo, cioè prima di avere certezza di vendita. Quindi un totale di 16 miliardi di euro.
Per quel che riguarda il pubblico, invece, le sovvenzioni a fondo perduto sono state stimate in nove miliardi per ricerca e sviluppo (in larga misura dagli Stati Uniti) e di 21 miliardi in advanced purchase agreements, cioè accordi di acquisto prima dell’autorizzazione dei vaccini stessi. Il pubblico ha investito perciò un totale di 30 miliardi di euro. Le conclusioni dello studio evidenziano dunque come la maggior parte del rischio finanziario che ha consentito la realizzazione dei vaccini esaminati sia stata assunta dal settore pubblico e non dalle imprese.
“Se il pubblico si comportasse come un normale venture capitalist chiederebbe di fare a metà o comunque di ricevere una parte dei proventi. Invece il problema è che il settore pubblico non ha esercitato i diritti che avrebbe potuto richiedere. Ma questo approccio è molto diffuso nel settore farmaceutico. La stima più prudente dice che il 50% circa dei costi della ricerca di qualunque farmaco è sovvenzionato dal settore pubblico. Allora questo che cosa vuol dire? Che in realtà è un po’ una scelta avere questo tipo di politica, perché una scelta alternativa è quella invece per esempio con cui sono stati fatti i vaccini sulla poliomelite o con cui si fanno i vaccini pubblici. Le case farmaceutiche in quel caso si limitano a produrli, le producono ma non c’è la tutela legale, l’innovazione viene fatta dal settore pubblico precedentemente”.
La proposta lanciata dal ForumDD si distingue dall’Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitaria (Hera), lanciata dalla Commissione europea a settembre 2021 con l’obiettivo di prevenire le minacce e le potenziali crisi sanitarie, attraverso la raccolta di informazioni e garantendo lo sviluppo, la produzione e la distribuzione di farmaci, vaccini e altre contromisure mediche in casi di emergenza.
Per Florio infatti l’Hera è “una struttura di tipo burocratico, anche abbastanza piccola, con 20-30 persone, che non hanno un curriculum scientifico”. La definisce “una centrale di acquisti”, che non ha nulla a che vedere con la ricerca scientifica. “L’infrastruttura biomedica che abbiamo in mente -continua il professore della Statale di Milano- potrebbe ispirarsi all’Agenzia spaziale europea (Esa) che ha una sua autonomia operativa, possiede gli strumenti per l’osservazione terrestre, ha un bilancio importante, e collabora anche con il settore privato. Lo stesso varrebbe per la nostra proposta: si mette a punto un portafoglio di progetti, si finanziano adeguatamente, questi progetti generano delle innovazioni, di cui l’agenzia mantiene la proprietà, e a fronte di queste poi si stabilisce a quali condizioni e come collaborare con le imprese. È un meccanico molto diverso dal sovvenzionare le imprese e acquistare dai loro scaffali ciò che loro decidono di proporre”.
Per quel che riguarda i brevetti e l’accessibilità dei farmaci, nel rapporto è rimasto un testo “contraddittorio”, osserva Florio. “Molti parlamentari, tra socialisti democratici, verdi e sinistra, avevano proposto in plenaria un emendamento che voleva stabilire in modo più chiaro che in certe situazioni, come per esempio una pandemia, i brevetti possono essere sospesi. Ma la proposta non ha avuto una maggioranza e quindi siamo rimasti a un testo molto complicato. Da una parte si sottolinea l’importanza di garantire i vaccini e le forniture mediche per i Paesi terzi, dall’altra si riconosce l’importanza dei brevetti per lo sviluppo della ricerca. Un compromesso insoddisfacente”.
Il brevetto su un farmaco permette all’azienda produttrice la vendita e la produzione in esclusiva per 20 anni. All’interno dei trattati sulla proprietà intellettuale, che sono parte dei trattati dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), esiste già la possibilità di sospenderli per facilitare l’accesso ai farmaci in particolari situazioni. Proprio per la pandemia da Covid-19, India e Sudafrica hanno provato a fare ricorso a questa misura incontrando fortissime opposizioni anche in Europa, e ottenendo alla fine, solo a giugno 2022, un accordo definito da più parti “annacquato”.
Nelle aspettative dei promotori di alcune proposte presenti nel testo, il rapporto potrà avere un impatto sulla revisione della legislazione europea sui farmaci, che mira a creare, tra le altre cose, un mercato unico dei medicinali, e sull’ambizione a creare un’Unione europea della Salute, in cui tutti gli Stati membri si preparino alle crisi sanitarie e le affrontino insieme.
Per ora, sostiene Florio, la Commissione europea ha varato una riforma timida della legislazione farmaceutica soprattutto per quel che riguarda l’esclusività di mercato dei farmaci, un’altra misura a protezione delle aziende che ha influenzato l’accessibilità ai vaccini durante l’emergenza Covid-19. La revisione della Commissione riduce a sei anni (da dieci) il periodo di esclusività di mercato durante il quale, in certi casi, per certi tipi di patologie, nessun’altra azienda può entrare nel mercato con un prodotto equivalente o cosiddetto “generico”. “Una riduzione che comunque dà alle imprese la possibilità di allungare nuovamente il periodo se operano in certi campi, come le malattie rare, e se si impegnano a portare i farmaci contemporaneamente in vari paesi dell’Unione europea”.
La Commissione e gli Stati membri dovranno tenere conto del report nelle prossime fasi regolatorie e legislative, che però molto difficilmente arriveranno a una conclusione entro la fine di questa legislatura del Parlamento europeo nel 2024.
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