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Diritti / Attualità

“Per motivi di giustizia”. Il libro-vanga per rovesciare padronato e agromafie

© People editore

Il sociologo Marco Omizzolo si occupa da anni di mafie, di tratta internazionale e di caporalato. Attraversa da vicino le storie di donne e uomini che non si arrendono, nonostante il razzismo, il lavoro forzato, la schiavitù, le mafie e una profonda indifferenza. Mauro Ferrari ha letto il suo ultimo lavoro. Ecco la sua recensione

Questo non è un libro. Come ebbe a dipingere, e poi a scriverne, Renè Magritte, “questa non è una pipa” (opera del 1929), ma una sua rappresentazione. E nessuno fumerebbe un quadro. Allo stesso modo “Per motivi di giustizia” (People, 2022) di Marco Omizzolo non è un libro, ma uno strumento di emancipazione, di consapevolezza, di affiancamento a persone diseredate, sfruttate; e nel contempo vivide, presenti, ciascuno con la propria storia, i propri desideri, le proprie fatiche e gli slanci, le lotte. Questo non è un libro, ma un attrezzo, una vanga che scava nelle contraddizioni del presente e ne allestisce la dismissione, poiché ne svela i lati peggiori nella prospettiva di un affrancamento, di una sua trasformazione che finalmente ponga in primo piano i diritti delle persone. Quindi questo libro non è un libro, ma una rappresentazione di una realtà che ci scorre a fianco, che sovente ignoriamo; che racconta come i meccanismi dell’economia globalizzata consentono contemporaneamente alla grande distribuzione di ottenere prezzi bassi, a noi consumatori di risparmiare denaro, alle e ai braccianti di incarnare nuove forme di schiavitù.

Questo libro dunque può essere letto (sì, in effetti è anche un libro), va studiato, ma va soprattutto brandito. Perché contiene storie di vita, che proveremo ora a scorrere insieme, come invito alla lettura: Tonino, erede di una tradizione di lotta; Balbir, indiano sikh, novello partigiano; Joty, che sperimenta sulla propria pelle nuove forme di razzismo; Harbhajan, custode di una storia millenaria; Aldo, medico consapevole di come la pandemia abbia amplificato le disuguaglianze; Gill, che dallo schiavismo passa al riscatto grazie alla “ortopedia dei valori” (p.170); Joban, suicidato perché schiacciato dai ricatti padronali; Ash, e la sua transizione di genere; Akhila, e i racconti delle violenze subite dalle donne; Paola e le filiere di comando, fra padroni e caporali; Malhi, che dal ricatto passa alla denuncia e la conquista della libertà; Amrinder e Gunpreet, gli infortuni sul lavoro, e la verità ricostruita a fatica; Gurjat, che muore cadendo da una serra; per arrivare a Benedetto, bracciante italiano che svela i rapporti fra padronato agricolo e mafia, e l’utilizzo di fitofarmaci velenosi e illegali, letali per la salute dei lavoratori.

Questo libro racchiude soggettività potenti (sul tema si veda anche Rossi, 2022), ciascuna delle quali consente di aprire squarci su un mondo parallelo, che altro non è se non l’esasperazione in negativo di ciò che riscontriamo altrove: rapporti contrattuali selvaggi, infortuni e morti sul lavoro, tossicità dell’agricoltura intensiva. Emblematico, per le finalità di questo lavoro, è il capitolo conclusivo, poiché “dà voce” al collettivo Ek Noor “giustizia”, che dichiara “con Marco abbiamo sperimentato la libertà, ne abbiamo sentito il profumo, e visto l’orizzonte all’alba, verso la quale ci siamo incamminati” (p. 520). E, dunque, questo non è solo un libro, ma un racconto, uno spezzone dell’Italia contemporanea, che ha reso visibile. È una sua rappresentazione.

Questo non è un libro accademico. Infatti le vicende accademiche esitano sovente meccanismi di riproduzione dell’esistente; coloro che un tempo venivano definiti “baroni” allevano le proprie stirpi, così da assicurarsi la perpetuazione del proprio potere, attraverso il controllo delle carriere dei discepoli. Esistono lodevoli eccezioni, come sempre, di aperture a teorie e metodi divergenti. In questo senso pubblicare libri può risultare una pratica efficace, se ben collocata in un percorso preordinato. Ecco, “Per motivi di giustizia”, così come la biografia dell’Autore, evita questo incardinamento: è una mossa del cavallo, insolita, e perciò stesso poco adattabile alle dinamiche interne degli atenei. Un secondo effetto, stavolta relativo ai rapporti dell’università con il mondo esterno, è quello della cosiddetta “torre d’avorio”: i docenti strutturati si frequentano, si invitano in consessi, collaborano a ricerche, insomma indossano uno stesso habitus (Bourdieu docet), tendenzialmente castale. Il mondo di fuori, quello inseguito dalla “terza missione”, che pure annovera esperienze davvero preziose, rimane anch’esso sovente una chimera, o quantomeno tende ad utilizzare le agenzie esterne (enti locali, fondazioni) come finanziatori delle proprie imprese, di nuovo finalizzate a percorsi e carriere interne. La stessa vicenda, terribile, di Giulio Regeni, rispetto a cui conosciamo la verità e rispetto a cui ancora chiediamo giustizia, probabilmente cela una distanza non solo fisica fra committenza accademica e ricerca sul campo. La prima ben distante, anche dal proteggere, dall’esporsi; la seconda, esposta. (Esiste in realtà una ulteriore variante, nel mondo accademico, di chi, una volta raggiunta la meta, si ritira in un rifugio sterile, contentandosi nella propria dorata torre d’avorio, rinunciando a formare, innovare, aiutare a crescere).

Infine va considerato un terzo fattore che ha a che fare con quella che viene talvolta indicata come “militanza”. Dal punto di vista metodologico un riferimento prezioso (e non a caso “non accademico”) va a Danilo Montaldi e alla sua con ricerca (ne abbiamo discusso in Ferrari: 2006). A partire dagli insegnamenti di Danilo Dolci, e sulla scia della cosiddetta “scuola di Chicago” (“serve sporcarsi i pantaloni, per svolgere ricerca con le persone che vivono nei quartieri poveri”), la storia letta, anzi riletta, ri-vista “dal basso”, dipana meccanismi altrimenti resi opachi da logiche allenate ad un eccesso di compatibilità con i meccanismi dello sfruttamento. In questo senso l’osservazione partecipante compiuta dall’Autore assume una coerenza non solo di tipo metodologico, ma anche, e forse soprattutto, rispetto ai suoi esiti processuali (sia nel senso del processo che sfocia in mobilitazione, sia nel senso del sostegno offerto nelle aule di tribunale). Anche in questo caso ci si misura con la coerenza, con l’esempio; non ci si lascia distrarre da prossimità ambivalenti (il riferimento è al recente “caso Soumahoro”).Ma a chiarire senza ulteriori chiose il binomio inscindibile ricerca-impegno scrive Omizzolo, a proposito del suo percorso e di questo libro: “Non è (…) un percorso di ricerca per docenti coi capelli bianchi, costantemente spettinati e al vento, intenti a prendere appunti per scrivere l’ennesimo saggio per l’ennesimo libro che venderà per l’ennesima volta forse cento copie per poi occupare il solito posto nella solita libreria. I libri e l’impegno sono sinonimi e devono camminare lungo le strade e per le campagne dove uomini e donne soffrono, sono sfruttati e nel contempo immaginano un altro futuro e un’altra vita” (pp- 481-482).

Ci verrebbe da chiederci se Marco Omizzolo sia un sociologo o un militante. O se forse sta forse confondendo analisi e lotte sociali. Dobbiamo riprendere le fila. Dunque, questo libro è l’esito di un processo, fondato metodologicamente, che inizia con l’ascolto, l’incontro, e sfocia infine nella ribellione, nella mobilitazione collettiva contro lo sfruttamento, contro i meccanismi criminogeni che presidiano intere vite, e che spuntano come erbacce in un contesto, quello del mondo del lavoro, che si ispira e si nutre della precarizzazione delle esistenze. È possibile analizzare senza intervenire? ascoltare, vedere, compartecipare, toccare con mano le ferite, le violenze e non mobilitarsi? In un saggio di alcuni anni fa (Ferrari: 2015) ci interrogavamo sul ruolo del ricercatore nel momento in cui si immerge nel campo, e ponevamo la questione, una volta realizzata la ricerca, del ritorno, o re-istituzione; che ritenevamo, e riteniamo ancor oggi, un vincolo, etico e insieme professionale: il coming back diventa un modo per re-interrogare i soggetti della ricerca, operando un feedback che può contribuire alla riflessività propria e dei propri interlocutori.

Nel caso di “Per motivi di giustizia” siamo oltre questa prospettiva, siamo in una messa in gioco totale, in un percorso di riconoscimento reciproco fra ricerca e militanza, fra sociologo e interlocutori che non confonde i ruoli ma anzi li esalta, così che le esperienze, le sofferenze dei singoli nutrono la ricerca, ma dove il ricercatore offre le sue reti (i rapporti con le forze dell’ordine, i sindacati, gli amministratori locali, il Parlamento, perfino con l’Università), le mette a disposizione di una causa emancipativa. Il che non toglie nulla alla qualità della ricerca, ma anzi la esalta, ne sprigiona tutte le potenzialità anche trasformative. Dunque Marco Omizzolo incarna la categoria gramsciana dell’intellettuale organico, stavolta non tanto nel rapporto originariamente inteso con il partito (inteso come strumento di emancipazione per le classi subalterne), quanto per l’impegno diretto, privo di mediazioni, con la classe bracciantile, e per la sua assoluta organicità, nel senso primario del coinvolgimento del proprio corpo, dei propri sentimenti, della propria autobiografia. È percorrendo le strade sterrate, fangose, del basso Lazio, che questo metodo consente all’Autore di generare relazioni basate sulla fiducia, di diventare parte di questa umanità dolente e martoriata, per sostenerne i diritti. Per questi motivi, infine, dunque sì, questo è un libro; e anche un libro accademico. E Marco Omizzolo è, a tutti gli effetti, un sociologo. E un militante.

Mauro Ferrari è sociologo, formatore e consulente organizzativo. È docente a contratto di progettazione sociale presso Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, Manno (CH). Esperto di botanica sociale e di ecologia delle migrazioni
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