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Diritti / Attualità

Tra caporalato e sfruttamento, il lavoro delle donne nelle campagne della Tunisia

L’Ong italiana Cospe ha indagato le condizioni delle lavoratrici agricole nel Paese: sono pagate meno rispetto agli uomini e spesso vengono reclutate da intermediari. Irregolarità e incidenti sul lavoro sono frequenti ma sono costrette ad accettare queste condizioni per mantenere la propria famiglia

Un momento della formazione dell'équipe del progetto "Faire" di Cospe © Cospe

Nella Tunisia rurale una donna che lavora nei campi viene pagata poco più di tre euro al giorno, il 30-40% in meno rispetto a quanto riceverebbe un uomo per svolgere le stesse mansioni. Non solo: per ottenere quell’impiego spesso deve affidarsi a un intermediario che trattiene per sé una parte di quel magro salario. A questo si aggiungono lunghi orari, scarsa sicurezza, persino minacce e violenze. “Alcune delle lavoratrici con cui abbiamo parlato sono consapevoli che essere pagate tre euro per una giornata di lavoro non è giusto, ma sono costrette ad accettare perché hanno bisogno di quei soldi per sfamare i propri figli”, racconta Amina Ben Fadhl, coordinatrice del progetto “Femmes travailleuses dans l’agriculture: inclusion, réseautage, emancipation”(Faire) della Ong italiana Cospe che ha indagato la complessità del lavoro agricolo femminile in cinque regioni del Paese (Jendouba nel Nord, i governatorati di Sidi Bouzid e Kasserine nel centro, Mahdia nell’Est e Sfax nel Sud) intervistando 91 donne di età compresa tra i 31 e i 50 anni impegnate nei campi o nella pesca artigianale.

Se da un lato è difficile avere numeri certi su quante siano le donne impegnate in agricoltura, quello che è certo è che in molte regioni della Tunisia il settore primario rappresenta l’unico ambito in cui è possibile trovare un impiego anche se spesso precario o stagionale. “Inoltre garantisce flessibilità per continuare a gestire il carico domestico e la cura dei figli, permette anche di non allontanarsi troppo dal proprio luogo di residenza -spiega Ben Fadhl-. Abbiamo poi notato una nuova tendenza: il Covid-19 ha fatto aumentare la disoccupazione maschile, di conseguenza molte donne che in precedenza non erano lavoratrici agricole hanno iniziato a svolgere queste mansioni per mantenere la propria famiglia. Sempre a causa della pandemia abbiamo incontrato anche giovani donne diplomate o laureate che non trovando lavoro nelle città hanno fatto ritorno nei villaggi d’origine”.

Più del 50% delle intervistate ha dichiarato di lavorare sei giorni a settimana e il 27,5% sette giorni su sette, senza che sia previsto nessun riposo. Con una media giornaliera di nove ore e mezza se si calcola anche il tempo necessario agli spostamenti. Il salario medio: 3,50 euro al giorno, inferiore rispetto a quello previsto dal contratto nazionale. Il 55% dichiara di aver accesso al lavoro attraverso un intermediario di sesso maschile, che talvolta è un familiare o un conoscente. Figure il cui ruolo cambia in base alle diverse regioni, al tipo di coltivazioni e che sono presenti soprattutto quando il modello agricolo prevalente è caratterizzato da grandi estensioni di terreno e da una gestione di tipo imprenditoriale, in particolare nei governatorati di Sidi Bouzid e Kasserine: “In questi casi il proprietario dei campi o chi li gestisce si rivolge a questi intermediari, il cui ruolo è molto simile a quello dei caporali in Italia, chiedendo di reclutare decine di braccianti, per un determinato numero di giorni per svolgere un lavoro preciso: dalla raccolta delle patate a quella della frutta -spiega Ben Fadhl-. In questi contesti che sono molto diversi dall’agricoltura di tipo familiare, le donne non riescono a entrare in contatto diretto con i produttori e non hanno modo di aggirare la figura dell’intermediario che, tra le altre cose, si occupa anche del trasporto”.

Raggiungere i campi in tempo per iniziare la giornata di lavoro rappresenta uno dei molti problemi che le lavoratrici agricole devono affrontare: soprattutto quando bisogna percorrere grandi distanze. Solo 14% del campione intervistato si reca al lavoro a piedi, il 9% usa i mezzi pubblici e il 10% altri mezzi di trasporto ma la netta maggioranza (il 66%) deve far ricorso all’intermediario, che non solo si fa pagare di più ma ha un modo ulteriore per consolidare la propria capacità di controllo sulle donne.

In questo contesto l’illegalità è la norma: delle 72 lavoratrici agricole del campione intervistato da Cospe, ben 69 hanno riferito di aver lavorato illegalmente e senza alcun diritto riconosciuto mentre solo tre hanno dichiarato di essere state assunte con un regolare contratto. Altrettanto carenti sono i dispositivi di protezione personale che non vengono forniti neppure quando le lavoratrici sono esposte a pesticidi. “Alcune delle donne con cui abbiamo parlato ci hanno raccontato di utilizzare dei vecchi contenitori di sostanze chimiche per raccogliere e conservare l’acqua da bere durante la giornata”, racconta Ben Fadhl.

Due lavoratrici agricole intervistate da Cospe © Cospe

Non stupisce quindi che il 71% delle intervistate abbia raccontato di aver subito incidenti sul posto di lavoro o mentre viaggiava a bordo di pulmini o altri mezzi di trasporto inadatti. La carenza di strumenti e misure di protezione è tale che non ci sono neppure kit di primo soccorso e quindi in caso di incidente le donne vengono semplicemente inviate al più vicino centro sanitario di base o continuano a lavorare fino al loro ritorno a casa. “Non avendo un contratto non hanno accesso nemmeno alla previdenza sociale che permetterebbe loro di essere tutelate in caso di infortunio, non hanno i contributi pensionistici -sottolinea la referente del progetto di Cospe-. Ci sono degli ispettori che vigilano sul rispetto delle normative sul lavoro, ma sono troppo pochi e hanno un budget insufficiente per monitorare con regolarità le grandi aree rurali della Tunisia”. Alla fatica e allo sfruttamento si aggiungono talvolta anche violenze verbali e fisiche: il 60% del campione intervistato afferma di esserne stata vittima nei luoghi di lavoro o sui mezzi di trasporto.

“Sono donne che vivono in località isolate, lontane dal centro della città, e non hanno accesso ai servizi dello Stato: ciò le rende più fragili. Devono fronteggiare molti ostacoli, lavorativi, sociale ed economici. Ma al tempo stesso sono donne forti, che resistono e che cercano non solo di lottare per garantire ai figli un futuro migliore, ma anche di creare sinergie e reti per riprendersi i propri diritti”, sottolinea Amina Ben Fadhl. Attraverso i progetti  “Faire” e “Gender empowerment, misure di protezione e messa in rete delle lavoratrici agricole” (“Gemma”) Cospe lavora per il riconoscimento dei diritti socio-economici delle donne contadine attraverso lo smantellamento di un complesso sistema di potere in cui si intrecciano mentalità tradizionali, relazioni di genere e pratiche illegali.

Dopo una prima fase dedicata all’ascolto delle istanze e dei bisogni delle lavoratrici agricole tunisine, Cospe ha iniziato a lavorare sia per sensibilizzare le amministrazioni, sia per sostenere le donne in questo percorso di empowerment offrendo loro formazione e coinvolgendole negli incontri pubblici, in modo che possano esprimere le proprie istanze. “Vogliamo fare in modo che siano esse stesse a far sentire la propria voce, cerchiamo di guidarle e camminare al loro fianco per far crescere la consapevolezza che agire collettivamente è il solo modo per generare un cambiamento -sottolinea Ben Fadhl-. Infine finanziamo iniziative che permettono a queste donne di rendersi maggiormente autonome da un punto di vista economico: penso ad esempio alle attività di trasformazione dei prodotti alimentari o a quelle donne che, avendo la proprietà di un piccolo appezzamento di terra, si sono riunite per dare vita a una propria attività agricola”.

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