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Diritti / Approfondimento

Da Saluzzo all’Agro Pontino, lo sfruttamento sistemico dei lavoratori migranti in agricoltura

La raccolta di saggi “Braccia rubate dall’agricoltura” analizza le condizioni di vita e lavoro dei braccianti migranti impiegati nei campi e nelle stalle. Uno studio sui meccanismi che li rendono la manodopera vulnerabile e necessaria per le catene di approvvigionamento

© Planet_fox - Pixabay

L’Agro Pontino nel Lazio, il Tavoliere nel foggiano in Puglia, la zona di Saluzzo in Piemonte e la piana di Metaponto in Basilicata. Sono alcune delle aree rurali dove, dalla raccolta del pomodoro a quella delle fragole, si sono sviluppate e radicate forme di agricoltura intensive alimentate dallo sfruttamento della manodopera migrante e precaria. Ad averle studiate, analizzandone caratteristiche e procedure, sono gli autori di “Braccia rubate dall’agricoltura”, collettanea di saggi edita dalla casa editrice Seb27 curata dai ricercatori Ilaria Ippolito, Mimmo Perrotta e Timothy Raeymaekers che firmano anche alcuni degli scritti raccolti nella pubblicazione, uscita lo scorso febbraio. L’obiettivo del testo, si legge nella prefazione scritta da Perrotta e Raeymaekers, non è solo denunciare il sistema di sfruttamento del lavoro agricolo nei campi italiani ma mostrare come alcuni degli elementi su cui esso si basa -tra cui la condizione di vulnerabilità giuridica dei cittadini migranti, la segregazione abitativa dei lavoratori agricoli nei ghetti e l’organizzazione del lavoro attraverso il caporalato- rappresentino aspetti strutturali, e non marginali, che hanno accompagnato la trasformazione dei sistemi agroalimentari nella forma che oggi hanno assunto. In questo senso, l’approfondimento delle condizioni di vita e lavoro dei braccianti è articolato dagli autori tenendo insieme due aspetti: i processi socio-economici che hanno portato alla trasformazione dell’agricoltura e del sistema agroalimentare, e il contesto politico, sociale e giuridico che rende i migranti, in particolare chi è appena arrivato in Italia, lavoratori vulnerabili.

“Questo lavoro è il punto di arrivo di un precedente progetto di ricerca, avviato nel 2016, chiamato ‘New plantations’ e finanziato dallo Swiss network for international studies. Prevedeva uno studio comparativo sul lavoro migrante in Europa, curato da Timothy Raeymaekers, ricercatore presso l’Università di Zurigo. Tra i Paesi analizzati allora c’era l’Italia, in particolare la Basilicata e il Piemonte”, spiega ad Altreconomia il co-curatore Mimmo Perrotta, ricercatore in sociologia presso l’Università di Bergamo. “Adesso nella raccolta abbiamo inserito studi territoriali accanto a due saggi di carattere generale: il primo, firmato da Alessandra Corrado, affronta le trasformazioni della filiera agroalimentare. L’altro, scritto da Carlo Caprioglio ed Enrica Rigo, riflette su come la condizione giuridica dei migranti li renda manodopera vulnerabile al punto da essere costretta ad accettare condizioni di lavoro penalizzanti e salari bassi”.

Il periodo preso in esame dai contributi inizia nel 2011, con l’arrivo in Italia dei migranti e dei richiedenti asilo a seguito delle “primavere arabe”, per terminare nel 2020 con l’emergenza sanitaria determinata dal Covid-19. I saggi ricostruiscono le condizioni di lavoro nella filiera ortofrutticola: la raccolta del pomodoro nel foggiano in Puglia e della frutta a Saluzzo in Piemonte, il lavoro nelle serre dell’Agro Pontino nel Lazio e nei campi di Campania e Basilicata, l’allevamento e la trasformazione del latte in Emilia-Romagna. Ciascun capitolo ricostruisce come le condizioni di vita dei lavoratori sono determinate dalle interazioni degli stessi con le istituzioni, le reti sociali e i produttori all’interno di uno spazio di relazioni sociali, economiche e istituzionali. Il filo che lega i testi è la tesi che “lo sfruttamento sul lavoro non è la patologia di un sistema agricolo che sarebbe altrimenti sano ma, al contrario, risponde al bisogno, strutturale in agricoltura, di manodopera in eccesso e a basso costo altrimenti la raccolta non sarebbe possibile. A sopperire tale richiesta di forza lavoro stagionale, con periodi di durata variabile, sono i lavoratori migranti che rappresentano la manodopera in più rispetto a quella già presente sul territorio”, spiega Perrotta. L’organizzazione di tale forza lavoro, dunque dell’offerta, è poi fortemente legata al lavoro di intermediazione dei caporali che, storicamente in Italia, si sono organizzati in accordo con gli agricoltori locali.

È il caso della provincia di Latina, studiata dal sociologo e ricercatore Marco Omizzolo nel saggio “Resilienza del sistema di sfruttamento nell’Agro Pontino”. Nell’area, diventata a partire dagli anni Novanta uno dei contesti agroalimentari, florovivaistici e lattierocaseari più importanti in Italia per fatturato e numero di lavoratori stranieri provenienti in particolare dal Punjab indiano, si è sviluppato un modello di agricoltura intensiva: i caporali esercitano il monopolio dell’offerta di lavoro, e lo sfruttamento e le violazioni dei diritti nei campi hanno natura sistemica e organizzata. Gli indiani -quasi 11mila secondo i dati Istat aggiornati al dicembre 2019- costituiscono una realtà organizzata e strutturata: sono impiegati in attività bracciantile a basso costo e bassa specializzazione e sono esposti a forme, anche gravi, di lavoro nero.

Le condizioni di impiego sono penalizzanti, con orari che possono arrivare alle 10-14 ore giornaliere quasi tutti i giorni del mese, e i salari hanno una retribuzione di quattro euro l’ora invece dei nove euro lordi previsti dal contratto. Sono frequenti gli infortuni, spesso drammatici e occultati dalle aziende. La vulnerabilità dei lavoratori indiani inizia dai debiti contratti per arrivare in Italia, attraverso intermediari, e si acuisce di fronte all’obbligo di avere un contratto di lavoro e un minimo di reddito per rinnovare il permesso di soggiorno. Un cambiamento nell’organizzazione della forza lavoro si è determinato a seguito dello sciopero di oltre quattromila braccianti indiani del 16 aprile 2016 a Latina -“il trauma nel sistema di sfruttamento pontino”, secondo la definizione di Omizzolo-, seguito dalla denuncia, da parte dei braccianti, delle attività illecite di reclutamento e sfruttamento delle imprese locali. Tra i suoi effetti c’è stato l’allontanamento dal posto di lavoro di molti lavoratori indiani, considerati “sindacalizzati”, sostituiti nella filiera dai richiedenti asilo di altre nazionalità ospitati nei centri di accoglienza del territorio. Una forma di riorganizzazione, scrive Omizzolo, che mostra in modo evidente il carattere resiliente del sistema di sfruttamento e la sua capacità di riorganizzarsi di fronte alle azioni sindacali.

Si occupa della precarietà abitativa e dello sfruttamento lavorativo a Saluzzo, in Piemonte, il saggio scritto da Ilaria Ippolito e Cristina Brovia. Nell’area agricola in provincia di Cuneo, si è sviluppato uno dei principali poli di frutticoltura italiani per estensione, pari a 15mila ettari, nelle cui aziende nel marzo 2020, secondo Coldiretti, erano stati assunti 10mila lavoratori. La stagione della raccolta, molto marcata, ha la durata di sei mesi e la vendita è destinata principalmente alla Gdo. C’è una forte offerta di lavoro stagionale a basso livello di qualificazione, in particolare rappresentata da stranieri. “Saluzzo negli anni è cambiata molto. Dal 2009, con i primi lavoratori e una condizione estremamente emergenziale, si arriva nel 2014 con la costruzione dei primi campi informali dove le persone dormivano all’addiaccio con frequenti sgomberi da parte delle amministrazioni comunali”, spiega ad Altreconomia Ilaria Ippolito, co-curatrice del rapporto, operatrice legale e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).

“Il principale problema nel saluzzese è quello abitativo: la mancanza di una dimora può portare a intermediazioni illecite sia per la ricerca di case e posti-letto sia per i trasporti necessari per raggiungere il posto di lavoro. Lo sfruttamento si rivela in alcune piccole pieghe: è principalmente lavoro grigio”, prosegue Ippolito. Vivere in modo prolungato e duraturo in luoghi informali, ghetti e case occupate determina, secondo le autrici, l’effetto “campo” e rende i lavoratori vulnerabili: “L’isolamento sociale provoca una degradazione della salute psico-fisica ma anche patologie che non possono essere curate. Non avere una dimora stabile significa non accedere a servizi di base, all’iscrizione anagrafica e all’assistenza sanitaria regolare. Questo aumenta la posizione di debolezza di chi vive nei campi informali, che diventa ricattabile, disponibile a lavorare per più ore e ad accettare condizioni di impiego sfavorevoli”, conclude.

La situazione di vulnerabilità cui sono sottoposti i braccianti migranti -oltre alle difficili condizioni materiali e abitative come i ghetti, altro oggetto di indagine dei ricercatori- è determinata dal loro statuto giuridico, conseguenza delle leggi italiane ed europee sull’immigrazione cui si aggiunge la breve durata dei permessi di soggiorno, che ne acuisce le condizioni precarie. In questo solco, spiegano i giuristi Caprioglio e Rigo, è possibile rintracciare i punti deboli della cosiddetta “Legge Martina” (199/2016), che ha riformulato il reato di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo ponendo l’accento sulla responsabilità dei datori di lavoro, oltre che dei caporali. Il diritto penale riconosce quindi lo sfruttamento solo nella sua dimensione patologica, ovvero nella misura in cui ci sia una violazione dei diritti fondamentali propria di uno specifico lavoratore che si trova in un rapporto relazionale. Ma, secondo i due autori, questo finisce per interpretare lo sfruttamento come un elemento esterno e non più sistemico dei rapporti di produzione. “Il limite del diritto penale è che agisce utilizzando un approccio soltanto repressivo”, aggiunge Mimmo Perrotta. “Per superare lo sfruttamento nel settore agricolo c’è invece bisogno di politiche attive che riguardino sia l’immigrazione sia l’accoglienza sul territorio dei lavoratori migranti stagionali. Ed è necessario riflettere su come cambiare in profondità il sistema agroalimentare attuale”.

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