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Cultura e scienza / Intervista

Marco Albino Ferrari. Contro l’assalto alle Alpi

Marco Albino Ferrari è giornalista, direttore editoriale e responsabile del settore cultura del Cai. Con Mia sconosciuta (ed. Ponte alle Grazie) ha vinto nel 2021 il premio Itas del “Libro di montagna”© Michele Lotti

I territori montani sono minacciati da modelli di sviluppo ormai superati. È tempo di un pensiero nuovo, consapevole e rispettoso, come racconta il giornalista e scrittore, responsabile del settore cultura del Club alpino italiano

Tratto da Altreconomia 260 — Giugno 2023

“Assalto alle Alpi”, l’ultimo libro di Marco Albino Ferrari, giornalista, direttore editoriale e responsabile del settore cultura del Club alpino italiano (Cai), si apre con il racconto di una storia dimenticata ma dalla grande portata simbolica, quella di Viola Saint Gréé: un piccolo Comune in provincia di Cuneo dove negli anni Sessanta del Novecento iniziarono i lavori per la costruzione di un moderno complesso sciistico, sul modello delle stazioni “sky total” allora di moda in Francia. Nel volgere di pochi anni furono costruiti alberghi, appartamenti e multiproprietà e un enorme complesso edilizio (la Porta delle Alpi) dove gli sciatori potevano trovare tutto il necessario per il soggiorno e lo svago: dai ristoranti ai minimarket, dalle sale convegni a quelle per gli spettacoli.

Per alcuni anni fu un successo. Poi, a partire dalla fine degli anni Ottanta, le nevicate si fecero sempre meno frequenti e abbondanti e gli anni Novanta segnarono la fine dell’avventura del piccolo comprensorio piemontese. Mentre cammina all’interno degli enormi locali vuoti e ormai vandalizzati, Ferrari si chiede quante siano le Viola Saint Gréé che punteggiano le Alpi: “Quante avventure fallimentari esistono intorno a noi, sulle quali ci ostiniamo a puntare grosse partite di denaro pubblico?”.

Ferrari invita però a non demonizzare l’industria dello sci: “In passato ha evitato lo spopolamento di molte vallate sulle Alpi, ridotto la povertà e portato sviluppo economico -dice ad Altreconomia-. Oggi però la situazione è radicalmente cambiata. Molte stazioni sciistiche, soprattutto a quelle a bassa quota, hanno dovuto chiudere per effetto dei cambiamenti climatici: solo in Piemonte quelle attive oggi sono 30 a fronte delle 46 del 2013. Abbiamo tante piccole realtà che chiedono risorse pubbliche per poter continuare a operare. E poi ci sono le grandi società che gestiscono i grandi complessi, che puntano a crescere sempre più”.

Può farci qualche esempio?
MAF Penso a Dolomiti Supersky, con i suoi 12 comprensori e 450 impianti di risalita, che si estende su un totale di 1.200 chilometri di piste: l’equivalente della distanza tra Milano e Cosenza. Una superficie enorme dove si fa largo uso dei cannoni per produrre neve artificiale, ma le giornate in cui la temperatura rimane costantemente sotto i meno due gradi (in gergo, i cosiddetti “giorni-neve”) sono sempre meno e in quel ristretto lasso di tempo va prodotta la maggior quantità di neve possibile. Questo richiede una grande disponibilità d’acqua, servono quindi più invasi artificiali per raccoglierla e conservarla. Tutte queste infrastrutture resteranno sul territorio per sempre: si tratta di azioni irreversibili. Ma questi grandi comprensori non chiedono di aumentare la propria capacità di offerta per adeguarsi alla domanda degli sciatori (provenienti soprattutto dall’estero e da Paesi non alpini) ma per battere la concorrenza, vantare un nuovo primato. Un po’ come avviene nelle città con i centri commerciali che diventano sempre più grandi senza che ci sia una reale domanda.

È possibile trovare una sostenibilità per l’industria dello sci?
MAF Sì, è possibile. Ma per prima cosa occorre interrompere quell’accanimento terapeutico che permette di mantenere in vita le piccole stazioni sciistiche situate in località dove la neve è destinata a scomparire. E bisogna dire basta all’aumento delle piste da sci: non c’è bisogno di nuove infrastrutture dal momento che il numero di praticanti di questa disciplina non sta aumentando. L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta: ma lo sci è solo un mezzo per farlo. Dopo il Covid-19 abbiamo visto grandi affollamenti di turisti in molte località alpine, soprattutto quelle più famose e pubblicizzate.

“L’esperienza degli ultimi anni ha mostrato che da parte delle persone c’è voglia di montagna, di stare all’aria aperta. Ma lo sci è solo uno dei mezzi per farlo”

Vede il rischio di ripetere con il turismo estivo quello che è stato fatto con quello invernale?
MAF Sì, questo pericolo c’è. Non si può impedire a nessuno di andare in montagna e se ha voglia di farlo è giusto che vada: però si può riflettere su dove andare. Oggi ci sono grandi concentrazioni e altrettanto grandi vuoti. Il Parco nazionale del Gran Paradiso o le Dolomiti, solo per fare due esempi, sono frequentati da milioni di persone, mentre appena al di fuori dai loro confini il numero di turisti ed escursionisti cala significativamente. Stiamo creando una geografia di luoghi “di serie A” certificati in diversi modi come eccellenze, come è successo alle Dolomiti con il riconoscimento di Patrimonio dell’umanità dell’Unesco, e in questo modo tutti gli altri vengono automaticamente declassati a luoghi ordinari e “di serie B”.

Come fare per cambiare questa situazione?
MAF Indicando strade alternative, evitando l’eccessiva concentrazione di turisti sia nei luoghi sia nel tempo. Le Alpi si affollano nel mese di agosto, certamente chi ha le ferie in quel periodo dell’anno non può fare diversamente, ma l’autunno è una stagione meravigliosa per frequentare le montagne e oggi i rifugi alpini tendono a prolungare le aperture. Occorre passare da un modello “concentrato e grande” a uno “diffuso e più piccolo” attraverso un’operazione culturale che aiuti questo cambio di prospettiva. Anche noi che facciamo comunicazione dovremmo lavorare per sostenere questo cambiamento.

In “Assalto alle Alpi”, pubblicato per Einaudi, lei scrive che l’unica via per arginare la cultura dell’eccesso è promuovere un senso diffuso della misura e le Alpi possono insegnarci molto da questo punto di vista. Di quale insegnamento si tratta?
MAF Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione, che può offrire solo una quantità di risorse limitata. Le comunità alpine storiche hanno dovuto fare i conti con questa finitezza dei luoghi e di conseguenza hanno dovuto sempre tenere sott’occhio l’andamento demografico: se diminuiva non c’erano abbastanza braccia per i lavori collettivi, ma se invece le bocche da sfamare aumentavano era necessario emigrare, andarsene. Analogamente, anche il nostro Pianeta è un luogo finito, proprio come un fondovalle alpino. La mia vuole essere una provocazione, io non sono una persona che guarda al passato come a un luogo di verità: però questo rappresenta l’esempio lampante di come una crescita infinita, come quella che ci impone il moderno sistema capitalistico, sia impossibile. Così come il mito di una storia che punta sempre verso un progresso non reversibile.

“Abitare una vallata alpina significa fare i conti con un territorio che è limitato per definizione e che può offrire solo un quantità finita di risorse”

Quali interventi sono necessari per costruire un nuovo rapporto, più proficuo e sostenibile, tra città e aree montane?
MAF
Innanzitutto ricordando che la montagna non è solo turismo, come dimostrano le esperienze delle tante famiglie giovani che tornano o scelgono di trasferirsi nelle terre alte. La montagna ha bisogno di una legge quadro: durante la scorsa legislatura il Consiglio dei ministri aveva approvato un testo che sarebbe dovuto poi andare alle Camere, ma poi con la caduta dell’esecutivo si è fermato tutto. Ora bisognerà ricominciare da capo. Servono diverse tipologie di interventi per incentivare il ritorno della vita in montagna, ad esempio favorire la ricomposizione fondiaria dei terreni che, nel passaggio di padre in figlio, si sono sempre più ridotti di dimensioni fino a ridursi a microparticelle che singolarmente non sono sufficienti per vivere. Occorre intervenire per favorire le aziende che nascono in montagna per iniziativa dei giovani, ma soprattutto una visione complessiva che metta insieme tutte queste azioni. Ovviamente questo intervento da solo non basta, ma è urgente agire. Tenendo conto che purtroppo le aree montane offrono pochissimi voti e quindi, spesso, la politica se ne dimentica.

Dedica anche ampio spazio all’analisi degli stereotipi che riducono le Alpi a luoghi salvifici o a parco di divertimenti per le persone in fuga dalla città. Quando nascono?
MAF Nascono nell’Ottocento e individuano le Alpi come luogo alternativo alle città che, negli anni della seconda rivoluzione industriale, diventano sempre più inquinate e invivibili. Le vette alpine e i suoi abitanti vengono idealizzati, diventano il luogo salvifico per antonomasia: un mondo in cui tutto è bene, pulito, buono e armonioso. Questa idea di alterità rispetto alla città, in cui in montagna rimane tutto fermo e uguale a sé stesso continua fino ai giorni nostri e provoca uno scollamento dalla realtà che però non fa bene né ai cittadini né a chi abita sulle Alpi.

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