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Crisi climatica / Approfondimento

L’impatto della crisi climatica sui rifugi e i bivacchi alpini ad alta quota

Il rifugio Goûter © Zacharie Grossen

Lo scioglimento del permafrost minaccia la stabilità di diverse strutture e, in alcuni casi, si è già deciso di procedere con l’abbattimento e la ricostruzione. Ma i cambiamenti del clima impongono una riflessione a lungo termine sull’alpinismo del futuro. Il nostro viaggio dall’Italia alla Svizzera

Il rifugio Casati è un’imponente struttura a tre piani costruita a quota 3.269 metri, affacciata sui ghiacciai del gruppo dell’Ortles-Cevedale, al confine tra Lombardia e Trentino. La struttura, inaugurata nel 1923 e successivamente ampliata, è il punto di partenza perfetto per gli amanti dello scialpinismo e delle escursioni in quota per raggiungere le vette del monte Cevedale e del Gran Zebrù. Ma il Casati, così come lo hanno conosciuto migliaia di amanti della montagna, è destinato a scomparire: il rifugio infatti sta collassando lentamente a causa dello scioglimento del permafrost, lo strato di terreno perennemente gelato situato alcuni metri al di sotto della superficie e che garantisce la tenuta delle fondamenta dei rifugi d’alta quota. Nel corso degli ultimi anni sono stati effettuati diversi interventi di consolidamento per salvare la struttura ma nel 2021 è stata presa la decisione di abbattere il Casati e ricostruirlo a poca distanza. Costo dell’intervento -che sarà fatto dall’ente Parco dello Stelvio, in accordo con la sezione milanese del Club alpino italiano (Cai), proprietaria della struttura- sarà reso possibile grazie a uno stanziamento di 3,6 milioni di euro da parte di Regione Lombardia.

Quello del Casati non è un caso isolato: dalla catena del Monte Rosa alle Alpi retiche diversi rifugi d’alta quota stanno soffrendo in maniera sempre più evidente le conseguenze dell’innalzamento delle temperature globali. “All’interno della Commissione rifugi del Club alpino ci interroghiamo da anni su questi temi. Stiamo monitorando con attenzione la situazione alla Capanna Margherita, che sorge a 4.556 metri sul Monte Rosa: abbiamo commissionato al Politecnico di Milano uno studio per valutarne la stabilità: verranno fatte una serie di rilevazioni in situ per appurare quanto la variazione delle temperature incide sul permafrost e sulla sua tenuta”, spiega ad Altreconomia il presidente della commissione, Riccardo Giacomelli. Un’altra struttura che soffre particolarmente per l’aumento delle temperature è il rifugio Caduti dell’Adamello -costruito negli anni Venti del Novecento a 3.040 metri- dove già negli anni Novanta e nei primi anni Duemila sono stati effettuati interventi per migliorare la stabilità: “Ora inizia a mostrare le stesse problematiche”, spiega Giacomelli.

Il permafrost (temine che deriva dall’inglese perennially frozen ground) è un geo-materiale che può essere composto da suolo, detriti o roccia ghiacciati a una temperatura uguale o inferiore allo zero per due o più anni consecutivi. L’aumento delle temperature globali ne sta causando una progressiva degradazione. Sulle Alpi non solo la soglia si sta spostando verso quote sempre più elevate, ma lo spessore del cosiddetto “strato attivo” di permafrost in cui si registrano temperature positive sta aumentando. Il rapporto pubblicato a conclusione dell’ultima “Carovana dei ghiacciai” di Legambiente che si è svolta nell’estate 2022 evidenzia come a quota 3.100 metri lo “strato attivo” abbia raggiunto la profondità di 7,1 metri: due in più rispetto alle media del periodo 2006-2021. Più si abbassa il livello del terreno completamente gelato, maggiore è il rischio non solo di cedimenti per le strutture costruite in quota, ma anche quello di crolli e cedimenti di costoni rocciosi.

L’impatto dei cambiamenti climatici e il progressivo “allentamento” del permafrost non riguardano solo strutture costruite tra Ottocento e Novecento come la Capanna Margherita o il Casati. Luca Gibello, presidente dell’associazione Cantieri d’alta quota e che ha raccontato in diversi libri i rifugi italiani e le loro storie, guarda al nuovissimo rifugio del Goûter inaugurato nel 2013 a quota 3.835 metri. Punto di partenza per gli alpinisti che vogliono raggiungere la vetta del Monte Bianco dal versante francese. “La struttura è stata progettata con dei micro-pali di fondazione che scendono a 14 metri di profondità -spiega- gli stessi progettisti avevano affermato che la stabilità della struttura era stata calcolata per un massimo di vent’anni. Non erano stati in grado di prevedere gli scenari per un arco di tempo maggiore. E stiamo parlando di una struttura moderna, costata milioni di euro”.

Il rifugio Casati e sullo sfondo il Gran Zebrù © Svíčková – Opera propria, CC BY-SA 3.0

Giacomelli invita però a non generalizzare: “Le problematiche relative allo scioglimento del permafrost sono presenti in maniera differenziata e interessano i singoli rifugi in relazione al puntuale rapporto che hanno nell’attacco al suolo”, spiega. A preoccupare il referente del Cai è anche il futuro dei bivacchi: piccole strutture incustodite, fondamentali per il ricovero notturno degli alpinisti e che sono collocati in situazioni ancora più estreme rispetto ai rifugi veri e propri: “La scorsa estate il crollo di uno sperone roccioso sul Monte Bianco ha distrutto l’Alberico-Borgna -ricorda-. Anche altre pareti stanno iniziando a mostrare segni di cedimento geo-meccanico a causa dello scioglimento del permafrost mettendo a rischio diversi bivacchi: sono strutture piccole, non generano reddito e non hanno un ‘nome’, ma sono un importante presidio di sicurezza per gli alpinisti”.

Anche il Club alpino svizzero (Cas) sta facendo i conti con i danni causati dall’aumento delle temperature: nell’estate 2023 prenderanno il via i lavori per la demolizione e la successiva ricostruzione su roccia stabile del Rothornhütte, un rifugio nel Canton Vallese, per un costo di circa 3,7 milioni di franchi svizzeri. Mentre la capanna Mutthornhütte -che era chiusa dal novembre 2021 a causa del grave rischio di caduta massi- verrà demolita e ricostruita a circa un chilometro di distanza in una posizione più sicura. La decisione, si legge sul sito del Cas, è però stata controversa: circa un terzo dei soci della sezione che gestisce la struttura ha votato contro il nuovo edificio anche per motivi di sostenibilità.

La capanna Rothornhütte nel Canton Vallese, nell’estate 2023 prenderanno il via i lavori per la demolizione e la successiva ricostruzione © Zacharie Grossen

Per valutare adeguatamente l’impatto dei cambiamenti climatici (e in particolare dello scioglimento del permafrost) sulle proprie strutture l’organizzazione svizzera ha promosso lo studio “Capanne Cas 2050” i cui risultati saranno resi noti nei primi mesi del 2024. “L’obiettivo è cercare di capire quali sono gli impatti del cambiamento climatico sul paesaggio, sulle attività alpinistiche e sui rifugi in alta montagna, anche rispetto a rischi naturali come lo scioglimento del permafrost -spiega ad Altreconomia Ulrich Delang, responsabile del settore capanne presso il Segretariato centrale del Cas-. Questo ci permetterà anche di valutare quali misure mettere in atto per continuare a svolgere attività alpinistiche: fra trent’anni alcuni rifugi potrebbero essere chiusi o spostati”.

Di fronte a questa situazione in molti iniziano a riflettere sul futuro dell’alpinismo e dei rifugi in alta quota. Per Gibello è arrivato il momento di chiedersi se abbia senso o meno costruire nuove strutture al posto di quelle destinate a essere abbandonate. “Forse alcuni edifici a rischio non dovrebbero essere ricostruiti: si parla molto di decrescita, di risparmiare risorse e conservare il paesaggio -riflette-. Ovviamente decisioni che vanno in questo senso hanno una ricaduta economica su chi gestisce queste strutture. Non abbiamo una soluzione ma è chiaro che non possiamo più fare finta di nulla”.

Anche per Giacomelli è importante iniziare a riflettere su quello che ci aspetta nei prossimi decenni: “Oggi siamo al lavoro per consolidare ma tra venti o trent’anni la domanda potrebbe essere se ha ancora senso mantenere alcuni rifugi -riflette-. Dobbiamo anche chiederci se abbia senso ricostruire in modo diverso e questo dipende da quanto sono frequentate le montagne. Nel futuro potrebbero esserci meno rifugi, più piccoli e più sicuri”.

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