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Cultura e scienza / Intervista

Matteo Righetto. La montagna e le sue genti

Un filo rosso unisce tutta la produzione letteraria dello scrittore veneto, che racconta le sfide ambientali delle Alpi, la solidarietà tra montanari o un’idea di patria che non riconosce i nazionalismi. L’abbiamo intervistato

Tratto da Altreconomia 257 — Marzo 2023
Matteo Righetto è nato a Padova nel 1972. Insegna Lettere ed è membro del comitato etico-scientifico di Mountain wilderness © Pierantonio Tanzola

In italiano c’è una sola neve, ma sulle nostre montagne ce ne sono tante. Nel ladino di Fodóm c’è la neve a pallini ghiacciati, chiamata balinà, oppure la nevèra, la nevicata copiosa che fa molto accumulo. E poi la buria, quella primaverile, di burrasca, e poi la brijia, una spolveratina leggera. […] E infine la mia preferita da sempre, la nef a panejiéi, la nevicata delle fiabe, lenta e duratura […]. È proprio vero che più numerose sono le nostre parole, più preciso è il nostro sguardo sul mondo” scrive Matteo Righetto alla voce “neve”, nef, nel sillabario alpino pubblicato da Mondadori, curato insieme a Mauro Corona (“Il passo del vento”, 2019). La descrizione delle forme della neve ritorna anche in una fiaba potente (“Dove porta la neve”, TEA, 2017) e nel cognome del protagonista dell’ultimo libro dello scrittore padovano: “La stanza delle mele” (Feltrinelli, 2022) è infatti la storia di Giacomo Nef, bambino in una borgata delle Dolomiti. La montagna è il filo rosso che abbraccia tutti i lavori di Righetto, che oggi vive tra Padova e Colle Santa Lucia (BL) sulle Alpi.

La trilogia “Senza patria” (Mondadori, 2022), che raccoglie tre libri pubblicati tra il 2017 e il 2019, racconta la saga di una famiglia in Val Brenta di fine Ottocento. I protagonisti sono Augusto De Boer e la figlia Jole. È lui, coltivatore di tabacco sfruttato e quindi contrabbandiere tra l’Italia e l’Austria, ad esprimere l’idea di frontiera per il montanaro.
MR La montagna per sua natura orografica ha più versanti, ed è di per sé terra di frontiera. Pensiamo a quante vallate si diramano da un solo rilievo. Pur rappresentando una situazione ambientale di cesura e di confine, in realtà la montagna è simbolo di contaminazione e incontro. Questo vale per qualunque tipo di istanza o di fenomeno culturale, basti pensare alla cucina, alle tradizioni popolari, all’architettura, alle lingue. Terra di contaminazione, incontro e confronto, le Alpi hanno culture simili sui versanti meridionali e settentrionali. La storia politica europea ha fatto sì che queste frontiere naturali divenissero anche confini, che nel tempo si sono spostati a seguito di guerre, domini, imperialismi.

Le persone -le donne e gli uomini di montagna- hanno sempre vissuto in modo più traumatico di ogni altra popolazione questi cambiamenti, che vedevano assoggettare e asservire le proprie comunità al potente o prepotente di turno. In questo senso, i montanari -a cui si pensa sempre come a persone molte chiuse- hanno sempre guardato al di là di questi confini politici e geopolitici, vivendo i propri boschi e le proprie pareti come terre d’incontro. I popoli alpini sono sempre stati transfrontalieri. Da qui l’idea di immaginare un personaggio femminile come Jole, ma anche suo padre, capace di rappresentare letterariamente, in maniera estensiva ma intima, questa concezione. Questa è l’anima della frontiera, impersonificata da un vento e incarnato da Jole, che sulla sua pelle, sulla sua esperienza, intuisce prima e comprende poi, consapevolmente, che ciò che suo padre le diceva è la verità. Che confini e frontiere sono ben altro da quelli tracciati dalla prepotenza politica. Le vere barriere sono quelle che differenziano e separano i privilegi e i privilegiati dagli oppressi.

Quest’idea di frontiera porta con sé una rilettura anche del concetto di patria.
MR Oggi viene propinata in modo fuorviante, ideologico, dannoso e pericoloso, come se la storia dell’Ottocento e del Novecento non ci avesse insegnato nulla. In tedesco esistono due parole che la descrivono, vaterland ed heimat: la prima è quella geopolitica, il confine entro cui esiste il popolo e la nazione tedesca. Heimat, invece, è la patria dei sentimenti, dei ricordi, e questo concetto porta a riconoscere anche quelle altrui, senza alcuna presunzione di superiorità della propria appartenenza. Questa patria ha spazio anche per la solidarietà, che è viva tra i montanari, come ho potuto vedere nei giorni dopo Vaia (la tempesta che tra ottobre e novembre 2018 ha causato danni per quasi tre miliardi di euro e provocato sulle Alpi la caduta di 42 milioni di alberi, ndr) a Colle Santa Lucia.

Il paese è rimasto isolato per una settimana. Augusto De Boer sostiene e insegna alla figlia, in modo a volte proverbiale, semplice come nella narrazione dei semplici, che la vera patria non è quella del nazionalismo che ancora oggi fa danni incalcolabili in tutto il mondo: basta pensare agli slogan di Donald Trump o ai sostenitori di Jair Bolsonaro in piazza con la maglia della nazionale di calcio, o a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Un nazionalismo che -anche quando è più blando- porta a disastri per la popolazione: penso alla Brexit. In nome della patria si cerca l’isolamento, la chiusura, facendo leva sull’ignoranza. Il nazionalismo sfrutta una cosa terrificante: la ricerca di un capro espiatorio, la de-responsabilizzazione. Lo racconto anche ne “La pelle dell’orso” (TEA, 2013): attorno a questo animale si scatena una paura ancestrale, perché porta sfiga, disgrazia. Don Lorenzo Milani scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica, sortirne da soli è avarizia”. In queste parole c’è il concetto di patria di Augusto. E poi c’è quella ideale, che ha a che fare con un sentimento e sensibilità personale: per me oggi si trova in una libreria, nella scuola e nella sanità pubbliche, dopo quello che abbiamo passato. Esistono anche quelle intime, individuali, indiscutibili: è dove ti senti parte della geografia, del vento e del bosco. Per uno di Canazei, la Marmolada non è una montagna, è parte della sua identità, è la sua patria.

“Eravamo poveri e partivamo con promesse straordinarie. Mi chiedo come sia possibile oggi guardare con disprezzo questi che devono attraversare il Mediterraneo?”

L’ultimo libro della trilogia racconta infine la migrazione.
MR Mi rende orgoglioso aver scritto una trilogia che ha a che fare con l’emigrazione veneta, tema su cui c’è una memoria storica quasi nulla. Qui i soldi hanno annebbiato la vista a tutti negli ultimi sessant’anni. Ci siamo dimenticati, si sono dimenticati, che il Veneto è una terra di migranti: i veneti sono in tutto il mondo. Ci sono molti più Righetto in Brasile che nella mia Regione. Per scrivere “La terra promessa” mi sono documentato, facendo parecchie interviste a miei lontani parenti che mi hanno raccontato le loro storie, quelle dei loro nonni e bisnonni, tramandate con lucidità, orgoglio e con nostalgia nonostante la durezza di vivere qui a fine Ottocento. Eravamo poveri e partivamo con promesse straordinarie. C’era una propaganda incredibile: la politica italiana aveva tutto l’interesse che tanti se ne andassero. Mi chiedo come sia possibile oggi guardare con disprezzo questi che devono attraversare il Mediterraneo? “Quelli” siamo stati noi e probabilmente saremo noi, perché il futuro è insondabile.

Nel 2020 scrivi “I prati dopo di noi”, una favola che affronta il tema dei cambiamenti climatici.
MR La montagna nell’immaginario collettivo è inscalfibile, in realtà è l’ambiente che prima degli altri soffre gli effetti del riscaldamento globale. Ci sono problematiche che in città ancora non si osservano con la stessa chiarezza, come la perdita di biodiversità o l’aumento degli eventi meteorologici estremi. Penso a Vaia e a quello che chiamo “long Vaia”, perché non è stato affrontato il problema degli alberi schiantati e questo ha fatto sì che si estendesse la presenza del bostrico tipografo, un piccolo insetto che sta devastando boschi oggi resi più fragili. Affrontiamo catastrofi continue e permanenti, la cui rappresentazione massima è la fusione dei ghiacciai.

Ho voluto portare questi temi in una narrazione mite, senza catastrofismo, trattando l’apocalisse in modo molto più favolistica, lasciando emergere la corda della narrazione orale, come nella letteratura scandinava o yiddish, attraverso una scrittura asciutta, lavorando sull’essenzialità dei dialoghi, perché i montanari non sprecano le parole. I tre protagonisti -che portano le ultime api verso l’ultima fioritura in cima a una montagna, mentre incombe su di loro il fuoco- sono ignorati e bullizzati perché diversi e non allineati, non omologati. Rappresentano anche le tre età dell’uomo (la bambina, il giovane, l’anziano) e si confrontano con gli altri, gli uomini che Johannes, uno dei protagonisti, incontra nelle taverne e rifiutano qualsiasi tipo di ragionamento, non vedono la realtà. Molti ancora fanno finta di non vedere, come i negazionisti del clima.

 Nel tuo ultimo libro, “La stanza delle mele”, fai i conti con la storia della Seconda guerra mondiale sulle montagne delle Dolomiti.
MR Anche questa è una questione dimenticata, perché comunità giudaiche erano disseminate ovunque prima della Seconda guerra mondiale, anche sulle Dolomiti. Gli ebrei italiani hanno una storia ancora da scoprire. Ci sono migrazioni, a volte forzate a volte volute. Alcuni casi che cito nel romanzo, in un dialogo a Venezia, sono fatti documentati. Per chi abbia interesse a leggere la storia da un punto di vista più collettivo e non solo quello della vicenda personale di Giacomo Nef (che da bambino scopre un uomo impiccato nel bosc negher sopra la borgata in cui vive con i nonni) il libro offre la possibilità di comprendere cose sconosciute. Così noi lettori ne restiamo sbalorditi insieme a Giacomo: lui per motivi suoi, e noi perché veniamo a conoscenza di una vicenda dimenticata. A me piace raccontare le storie della povera gente, degli ultimi, inserendole nel contesto della grande storia. Questo -seguire una persona comune e la sua piccola ed epica vicenda, inserendola nel contesto di eventi più grandi- torna in tutti i miei libri.

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