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Le “madri lontane” costrette a lasciare i propri figli per assicurargli un futuro migliore

Miruna abita a Zmeu, ha ventisette anni ed è incinta del secondo figlio. "Sono andata via due volte, per tre mesi, quando il mio primo bambino aveva solo due anni. C’era una donna che passava di casa in casa e reclutava le braccianti. Chiedeva cinquanta euro a testa. Sono partita anche io e poi ho scoperto che faceva la cresta sui nostri stipendi" © Stefania Prandi

Stefania Prandi, giornalista e scrittrice, racconta in un lungo reportage narrativo edito da People le loro storie e il “doppio standard” con cui si considera la maternità delle donne migranti. Una mostra fotografica itinerante, dal 6 all’8 settembre presso la casa delle donne di Modena in occasione di “Scomode, festival delle donne contro la violenza”, dà loro un volto

C’è un aspetto intimo e nascosto, delicato e quasi mai raccontato che riguarda le donne migranti, spesso vittime di sfruttamento lavorativo: la maternità. “Le madri lontane” raccontate dalla giornalista e scrittrice Stefania Prandi nel suo lungo reportage narrativo, edito da People, sono donne costrette a lasciare i loro figli e le loro figlie nel Paese di origine per emigrare, rinunciando a un presente accanto a loro per assicurargli un futuro migliore.

Provengono per lo più dalle aree rurali dei Paesi dell’ex blocco sovietico, dalla Romania alla Bulgaria, dove gli stipendi sono molto bassi -intorno ai quattrocento euro al mese per i lavori più umili, come riportato nel libro-. Sono le braccianti che raccolgono la frutta e verdura nelle campagne del Sud Italia, in Puglia, in Sicilia, in Basilicata. Sono sempre loro le caregiver dei nostri familiari anziani quando scelgono di dedicarsi al “badantaggio”, meno pesante fisicamente ma più traumatico: può implicare anche quindici o vent’anni di assenza da casa. “C’è un filo sottile che ci lega a queste donne. Anche se spesso non ci pensiamo -osserva Prandi-, sia perché lavorano nelle nostre case, sia dal momento che siamo consumatrici e consumatori”.

Secondo una ricerca della Ong Save the Children Romania, citata nel libro, l’Italia è infatti la prima destinazione per la migrazione femminile, il 21% delle donne la scelgono per il proprio progetto migratorio. Il 20% di queste, poi, sono occupate nel settore agricolo.

Non a caso la chiamano “sindrome Italia”: “la condizione di estremo disagio dovuta all’aver delegato la maternità ad altri” che causa anche insonnia, disturbi d’ansia e stress. È un’espressione coniata da due psicologi ucraini, ed è usata nel libro da Petronela Nechita, dottoressa primaria dell’ospedale psichiatrico Socola di Iași -una delle provincie rurali della Moldavia romena da cui più si emigra-, per indicare il 5% delle donne ospiti della struttura in cui lavora.

Una lavoratrice in una serra di ortaggi nella provincia bulgara di Montana. “La Bulgaria è un Paese a forte vocazione agricola ma i salari sono bassi e i bulgari preferiscono emigrare. Anche chi si laurea in Agraria difficilmente decide di restare”, spiega Bozhura Fidanska, ricercatrice dell’Istituto di Economie agricole di Sofia © Stefania Prandi

“Sai com’è la nostra giornata? Chi non lavora la notte parte, comunque, alle quattro o alle cinque della mattina […]. Stiamo lì per otto ore, magari di più […]. Davvero è pensabile crescere un figlio in queste condizioni?”, si legge nel libro. Sono le parole di Clea, arrivata vent’anni fa in Italia per raccogliere le fragole in Basilicata. È sempre lei a non avere paura di usare la parola abbandono “perché li abbiamo abbandonati davvero, siamo state costrette a farlo, in Romania non c’è niente di buono per noi”. I lunghi orari della campagna, le abitazioni anguste, spesso non a norma, e la stanchezza cronica non si conciliano infatti con le cure per l’infanzia.

Irina è partita quando i suoi figli erano adolescenti. “Dopo la fine del socialismo, in Bulgaria sono state chiuse molte fabbriche: così siamo rimasti disoccupati e siamo dovuti andare a cercare lavoro all’estero. La sera mia figlia mi chiamava piangendo e mi chiedeva perché l’avessi lasciata sola”. Nella foto abbraccia il nipote che vive in Italia © Stafania Prandi

Clea racconta di avere due figlie: una di venticinque anni e una di quindici. La seconda non vuole più vederla e parlarle: “Chiama mamma la nonna, io per lei sono morta”. Nella maggior parte dei casi infatti sono proprio le nonne, madri o suocere, a occuparsi delle loro bambine e bambini mentre sono lontane. “Fanno del loro meglio, cercano di sopperire all’assenza delle madri con l’affetto”, dice Prandi, ma spesso peccano di autorità genitoriale o non sono abbastanza scolarizzate per aiutare i nipoti con i compiti. La conseguenza è un’alta dispersione scolastica, come riportato dalle parole di Iurcich Ilie, preside del plesso scolastico di Zmeu, nella provincia di Iași.

“Sono state le donne che intervistavo a parlarmene, a fare emergere questo tema”, riporta Prandi che si occupa delle diverse facce dello sfruttamento lavorativo femminile, ma anche maschile, già dal 2016 quando ha letto un articolo del giornalista Antonello Mangano sulle violenze subite da cinquemila lavoratrici nelle serre di Vittoria (Ragusa). Da quell’anno Prandi ha viaggiato nelle aree in cui la manodopera agricola è prevalentemente femminile, in Italia e all’estero, come a Heulva in Spagna dove si raccolgono i frutti rossi.

Rosita Alexandrova è una maestra di sessantaquattro anni. Insegna in una scuola in provincia di Montana, in Bulgaria. “Nel corso degli anni ho avuto molti alunni con le mamme emigrate per lavorare. La mattina, appena arrivati, mi chiedevano di abbracciarli perché si sentivano soli” © Stefania Prandi

La sua lunga ricerca è confluita poi in un’inchiesta internazionale, “Rape in the fields”, firmata insieme alla giornalista tedesca Pascale Muller e in seguito nel libro “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo”, edito da Settenove, in cui Prandi si era dedicata più che altro al tema della violenza sessuale. “La violenza sui corpi legata alla maternità, e quindi potremmo dire quasi di sistema, è qualcosa a cui si pensa con minore frequenza rispetto a quella sessuale -dice Prandi-, perché è meno eclatante e non indigna allo stesso modo. L’idea è stata quindi quella di fare luce su una parte della società che guardiamo senza vedere e a volte non guardiamo neanche”.

Eppure i numeri sono importanti. I cosiddetti “orfani bianchi” o i “left behind”, ricorrendo all’espressione inglese usata dall’organizzazione internazionale Unicef, nel 2022 rappresentavano il 14% del totale dei minori romeni: mezzo milione circa di bambine e bambini con almeno un genitore all’estero, sempre secondo i dati di Save the Children Romania. Centocinquantamila sono i “senza madre”, segnati da un senso di abbandono che provoca calo di fiducia in sé stessi e traumi che influenzano il loro futuro e i loro rapporti personali. “A volte pensiamo che la violenza sulle donne riguardi soltanto le donne; invece l’onda si propaga al resto della famiglia e in primis ai figli e alle figlie”, sottolinea Prandi.

Iva ha cinquantatré anni. Quando i suoi due figli erano adolescenti è partita per l’Italia per lavorare come bracciante e si è ammalata di cancro. “L’ho scoperto quando sono tornata in Bulgaria perché il medico italiano non mi prendeva sul serio” © Stefania Prandi

Dal 2021 al 2023 si è dunque dedicata ad approfondire questo tema, raccogliendo più di settanta interviste a lavoratrici, associazioni, sindacalisti e ricercatori. “Mi sono continuata a interrogare sulla maternità -racconta-, e ho iniziato a pensare nel corso degli anni che ci fosse un ‘doppio standard’ nel modo in cui viene considerata quella occidentale e quella del resto del mondo, anche se parliamo di luoghi che sono molto vicini a noi”. Uno standard che si basa fortemente su stereotipi di genere e sensi di colpa che ne derivano. Sulle spalle delle “madri lontane” pesa infatti il carico delle faccende domestiche e della cura dei figli e delle figlie e l’idea, diffusa nelle società patriarcali, che debba essere il padre la persona che mantiene la famiglia.

Partire non è quindi mai facile, ma spesso è l’unica opzione che queste donne hanno a disposizione. “I padri hanno un ruolo accessorio nella società romena -spiega nel libro Stefano Bottoni, professore associato in Storia dell’Europa orientale all’Università di Firenze-. In genere muoiono giovani, intorno ai quarant’anni per lo stile di vita non salutare dovuto in particolare all’abuso di alcol”.

Petra vive in un paesino della Moldavia romena, in provincia di Iași. Ha quarantasette anni, nove figli e tredici nipoti. Per tre estati ha lavorato come bracciante in Italia: uno dei suoi bambini era malato e le servivano i soldi per le medicine © Stefania Prandi

“Quella delle donne è una migrazione economica, frutto di una scelta, seppur costretta -racconta Prandi, ponendo l’attenzione sull’agency delle migranti che decidono di partire nonostante siano consapevoli di doversi separare dagli affetti-. Il dibattito pubblico e politico è stato spesso incentrato sull’idea che i migranti e le migranti economiche siano di ‘serie B’, e che soltanto chi fugge dai propri Paesi a causa, per esempio, di disastri ambientali, persecuzioni politiche o guerre abbia dignità di migrare. Ma in realtà queste donne ci raccontano un’altra storia. Molte me lo hanno detto chiaramente: ‘se non avessi fatto questa scelta, non avremmo avuto da mangiare’”.

C’è un ultimo capitolo che non si può leggere nel libro, ma che dimostra il legame che abbiamo con le donne che ne sono protagoniste insieme ai loro figli e figlie. Le foto scattate da Stefania Prandi durante i suoi viaggi e ricerche sono esposte in una mostra itinerante presso scuole, gallerie e sale museali. Dal 6 all’8 settembre sarà possibile visitarla presso la case delle donne di Modena in occasione di “Scomode, festival delle donne contro la violenza”. “Quando facciamo l’allestimento in genere coinvolgiamo i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori che ci aiutano a montare i panelli delle foto e poi diventano i ciceroni della mostra -racconta Prandi-. Abbiamo vissuto dei momenti molto emozionanti perché alcuni di loro provenivano dalla Romania o dalla Bulgaria o da Paesi da cui si emigra, e avevano vissuto situazioni simili a quelle che ho raccontato”. Le donne nelle foto avrebbero potuto essere le loro madri.

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