Diritti / Attualità
Le invasioni dei militari israeliani nelle case delle famiglie palestinesi in Cisgiordania
Ogni mese nei Territori occupati della West Bank si contano oltre 200 violazioni del domicilio per mano dei soldati israeliani a danno dei palestinesi. Pratiche illegittime dalle gravi ricadute per la popolazione civile. La denuncia di tre organizzazioni israeliane, tra le quali Breaking the Silence che riunisce veterani di Tel Aviv
Ogni mese in Cisgiordania sono oltre 200 le violazioni di domicilio dei soldati israeliani a danno delle famiglie palestinesi. Parte da questo dato emblematico confermato dalle Nazioni Unite l’ultimo report di tre associazioni israeliane –Yesh Din, Physicians for Human Rights Israel e Breaking the Silence– impegnate a sensibilizzare l’opinione pubblica su quello che accade nei Territori occupati. Intitolato “A life exposed. Military invasions of Palestinian homes in the West Bank”, il lavoro, pubblicato a fine novembre 2020, è frutto di un progetto di ricerca, documentazione e raccolta di testimonianze avviato nel 2018.
Le invasioni normalmente iniziano di notte con urla e colpi alla porta, seguiti dal violento ingresso in casa di soldati armati e talvolta a volto coperto. Spesso i militari non aspettano nemmeno che i proprietari aprano la porta ma la forzano, danneggiandola o distruggendola. Una volta entrati, svegliano tutte le persone che vivono nella casa e ordinano loro riunirsi in una stanza e rimanere lì sorvegliati, senza poter chiedere aiuto o muoversi liberamente.
Le violazioni domiciliari sono di quattro diverse tipologie: per cercare soldi, armi o altri oggetti, per arrestare uno o più membri della famiglia, per identificare la caratteristiche fisiche dell’abitazione o uno dei suoi abitanti, per sequestrare l’immobile per esigenze operative.
Queste azioni nell’88% dei casi avvengono tra la mezzanotte e le cinque del mattino, durano circa 80 minuti e possono coinvolgere tra i cinque e i 30 soldati (nel 74% dei casi agiscono almeno dieci militari). Essendo in vigore -per i soli palestinesi- la legge militare, non è necessario il mandato firmato da un giudice per introdursi con la forza in abitazioni private e alle famiglie “perquisite” non viene rilasciato alcun tipo di documento, nemmeno agli arrestati.
“Quando si effettua una perquisizione in casa di un palestinese, non è che ci sia bisogno di un’ordinanza del tribunale, è sufficiente volerlo fare. A Hebron, se sei palestinese, entrerò in casa tua ogni volta che ne avrò voglia, cercherò quello che voglio, e metterò sottosopra la tua casa, se voglio”, è la testimonianza di un tenente raccolta nel 2014 dagli attivisti di Breaking the Silence, Ong che riunisce veterani delle forze militari israeliane che hanno prestato servizio nell’esercito a partire dalla seconda Intifada. “L’assenza del requisito di un mandato, insieme all’ampia e vaga definizione dei casi in cui sono consentite le violazioni del domicilio, conferiscono ai militari un potere draconiano, anche dispotico, che porta a negazioni arbitrarie dei diritti dei palestinesi e ad una violazione non necessaria e non fondata su sospetti concreti”, scrivono ancora gli autori del rapporto. Questa pratica non solo costituisce una violazione dei diritti umani, ma è anche contraria al diritto internazionale che vieta a una forza occupante di intervenire in maniera violenta e arbitraria nella vita degli individui che vivono sotto l’occupazione, se non in caso di un pericolo concreto.
Invece molto spesso le invasioni interessano famiglie nelle quali nessun membro è sospettato di svolgere attività illegali o è considerato pericoloso: in particolare se esse servono a “mappare”, cioè a raccogliere informazioni sulla struttura della casa e sui suoi inquilini. In questi casi, non solo viene violata la dignità e la sicurezza delle persone perquisite, ma vengono anche raccolte informazioni su persone non sospettate di nulla contro la loro volontà. Peraltro gli autori della ricerca spiegano come queste invasioni per “mapping” non abbiano una base giuridica esplicita né nel diritto militare né nelle disposizioni del diritto internazionale umanitario.
Le leggi di guerra assegnano alle forze di occupazione poteri estremamente ampi, che però si applicano solo in situazioni che rientrano nella definizione di conflitto armato. Invece i soldati israeliani, stando alle testimonianze dirette raccolte dalle Ong, utilizzano questo strumento all’unico scopo di intimidire e fare sentire il controllo sulla popolazione palestinese, tant’è che spesso i bersagli vengono scelti a caso e le informazioni raccolte non vengono neppure utilizzate. Una volontà di dominare che si esprime anche nei casi in cui le abitazioni vengono sequestrate per lo svolgimento di azioni militari. Queste invasioni possono durare anche giorni e per tutta la loro durata l’accesso alla casa è limitato e controllato dai soldati. Nel rapporto viene descritto come in alcuni di questi sequestri i soldati mostrino una totale mancanza di rispetto per lo spazio occupato: dormono nei letti della casa, ne usano i servizi igienici lasciandoli sporchi e gettano i rifiuti corporei nei vani delle scale o sui tetti. “Quello che ci è richiesto di fare, ovvero far sentire la nostra presenza, non solo esserci ma farci vedere, produce paura e terrore -racconta ancora un capitano a BtS-. Si va in un villaggio per far vedere proprio che si va in un villaggio e non si ha paura, e per mostrare a loro che siamo qui. La stessa cosa avviene quando ci si si lascia entrare nelle case ogni sera, o ogni due sere, o ogni settimana, anche dalle famiglie che non hanno fatto niente e non hanno niente a che fare con niente”. Queste testimonianze spiegano come il vero scopo delle violazioni domiciliari sia quello di intimidire la popolazione e accrescere il controllo militare o la sua percezione: i palestinesi devono avvertire la presenza dei soldati e sapere che essi respingeranno ogni tentativo di protesta prima ancora che avvenga.
E in effetti gli impatti sulle persone sono devastanti. Numerosi intervistati che hanno subìto una violazione di domicilio negli ultimi due anni raccontano di aver provato un senso di “perdita di controllo”, che resta anche dopo. Gli adulti manifestano sintomi di stress post-traumatico e di ansia che interferiscono con la vita quotidiana e sono state riscontrate anche delle reazioni per cui il corpo rimane in uno stato di costante allerta e ha difficoltà a rilassarsi, con disturbi del sonno correlati. Questi ultimi sintomi sono stati osservati anche tra bambini e adolescenti, insieme all’ansia, all’aumento della dipendenza dai genitori e al manifestarsi di comportamenti aggressivi. Inoltre, le invasioni in un’area specifica -come una città, un villaggio o un quartiere- possono anche interferire con le relazioni all’interno della comunità e produrre un clima di paura e intimidazione. Con i debiti distinguo, anche alcuni dei soldati intervistati hanno espresso un disagio rispetto a questa pratica: “Durante l’addestramento non abbiamo mai parlato di entrare nelle case. E non si parla mai di come comunicare con la popolazione, di come entrare in una casa che non si trova in una zona di combattimento. Assolutamente nessun addestramento sul servizio nei Territori”, confida un sergente maggiore a BtS. Le testimonianze raccolte indicano che i soldati e gli ufficiali non ricevono un addestramento sulla condotta da mantenere nei confronti dei civili palestinesi o sulla protezione dei loro diritti. “Invadono le case palestinesi in Cisgiordania con una sola cassetta degli attrezzi: la cassetta degli attrezzi dei soldati che ingaggiano un nemico” si legge nel report.
E il problema, secondo la ricerca, sta proprio nella differenza che c’è in Cisgiordania tra israeliani e palestinesi. “L’esistenza di due sistemi giuridici separati produce una discriminazione su base etnica nazionale tra due popolazioni che vivono nello stesso territorio. Applicare un sistema giudiziario diverso a israeliani e palestinesi sulla base della distinzione nazionale significa disuguaglianza di fronte alla legge e costituisce una chiara violazione del divieto di discriminazione sulla base della nazionalità sancito dal diritto internazionale. Quello che ne deriva -concludono i curatori dello studio- può anche essere identificato come apartheid”.
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