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La brutalità del confine Turchia-Bulgaria, dove i morti di frontiera restano senza nome
Il Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino denuncia nel dettagliato report “Torchlight” le condizioni delle persone in transito in Bulgaria. Vivono nei campi in pessime condizioni. E chi muore tentando di attraversare il confine rischia di non ricevere identificazione e sepoltura. “Un contesto tragico”
“La cosa peggiore di tutte sono le condizioni igieniche. I bagni sono pessimi ed è impossibile fare una doccia decente. Alcuni wc sono staccati dalle pareti, altri sono otturati. E poi non abbiamo acqua calda. Nelle camere c’è il riscaldamento ma non funziona”.
M. è un ospite di uno dei più grandi campi bulgari per i rifugiati che si trova ad Harmanali, cittadina di poco più di 25mila abitanti a meno di 50 chilometri dal confine con la Turchia. La sua è solo una delle centinaia di testimonianze raccolte dal Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino che ha pubblicato a inizio gennaio un dettagliato report intitolato “Torchlight” sulla condizione di vita delle persone migranti in Bulgaria. “Sentivamo l’urgenza di diffondere il più possibile ciò che avevamo visto -spiega l’attivista Clara Leonardi-. Anche tra coloro che si interessano di questi temi si sa poco del confine bulgaro perché non c’è nessuno che se ne occupa”.
Il collettivo ha trascorso quasi cinque mesi in quei luoghi e, dopo aver raccontato “a puntate” quanto visto (ne abbiamo già dato conto qui), ha deciso di fare un passo in più. “Da un lato sistematizzare le informazioni, dall’altro arricchirle: quanto scritto qualche mese fa era parziale, con il passare dei mesi abbiamo preso più consapevolezza della situazione”, racconta Leonardi. Un contesto definito “tragico” se riferito alle condizioni in cui vivono le persone nei campi di Harmanli (2.710 posti), già in parte descritto, e Pastrogor, un transit center, a meno di 15 chilometri dal punto in cui il territorio bulgaro incontra il confine di Grecia e Turchia, che ospita fino a 320 persone provenienti da “Paesi terzi sicuri”.
Soprattutto marocchini e algerini che vengono sottoposti a “procedure accelerate” la cui conclusione dovrebbe essere il rimpatrio: in realtà, dopo al massimo 14 giorni, le persone vengono costrette a lasciare la struttura e a vivere per strada, finché non riescono a trovare i soldi per poter riprendere il cammino. “In entrambe le strutture mancano le misure igienico-sanitarie di base -denuncia nel report il Collettivo-, il cibo fornito è scadente quando non addirittura immangiabile e sono molto diffuse malattie come la scabbia e le punture di insetti come cimici da letto. L’assistenza medica all’interno dei campi è praticamente assente e quando c’è spesso si limita a visite preliminari e sbrigative”.
Attiviste e attivisti si sono scontrate quotidianamente con un contesto molto ostile nei confronti delle persone in transito. Che incide anche sulla vita all’interno dei campi: l’orario di rientro imposto alle persone ha subito diverse variazioni in seguito alle proteste dei residenti. “La popolazione è molto chiusa e un campo con duemila persone in una cittadina che conta 25mila abitanti aumenta la tensione -spiega Clara -. Mentre eravamo lì si è celebrata la sagra del Paese: il campo è rimasto chiuso tutto il giorno. La volontà di tenere i migranti lontani dagli occhi della popolazione è evidente. Anche durante la nostra attività di distribuzione del cibo spesso siamo stati criticati, alcuni attivisti locali sono stati addirittura aggrediti”.
Oltre alla distribuzione di medicinali, acqua e cibo, con il passare dei mesi il Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino ha anche attivato una safeline con l’obiettivo di rispondere alle richieste di aiuto provenienti dalle persone in movimento. Sono state più di 30: in 22 casi gli attivisti hanno chiamato il 112 e si sono recati sul posto per capire se effettivamente la polizia intervenisse per ricercare le persone. “Nel caso di due segnalazioni, una volta raggiunta la posizione segnalata attraverso la safeline, abbiamo trovato un corpo senza vita -si legge nel report-. Attraverso le testimonianze di chi ha perso compagne di viaggio lungo quel confine, ci siamo presto resi conto che la foresta bulgara è un cimitero a cielo aperto, e che la maggior parte delle persone che vi perdono la vita muore in silenzio e poi non viene ritrovata. Nei casi in cui i corpi vengono rinvenuti inizia un labirinto burocratico che silenziosamente si accanisce ancora sulle persone ormai senza vita, straziando le loro famiglie, spesso divise tra il loro Paese di origine e l’Europa”.
Così il Collettivo ha più volte fatto visita all’obitorio di Burgas, città di circa 200mila abitanti affacciata sul Mar Nero a 380 chilometri da Sofia. “Quando la polizia entra in contatto con un corpo nel bosco lo porta in quell’obitorio -riprende Leonardi-. Serve un famigliare stretto della vittima per riconoscerlo ma nella maggior parte dei casi non è possibile perché parliamo di famiglie siriane piuttosto che irachene. In ogni caso persone per cui è impossibile recarsi sul posto”. Così molti corpi restano “fermi” e senza una sepoltura, per cui però è necessario, come detto, l’identificazione. “Una dottoressa ci ha detto che arriva mediamente un corpo al giorno e che non c’era più spazio in cui mettere i cadaveri”. Morti su cui gettare una luce, per mostrare, come dice il sottotitolo del report, la “violenta opacità del regime europeo dei confini”.
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