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Diritti / Attualità

Tra le persone respinte e lasciate senza soccorsi in Bulgaria, frontiera d’Europa

© Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino

Al confine tra Turchia e Bulgaria le persone in movimento sono sottoposte a continue violazioni dei loro diritti, dall’omissione di soccorso ai respingimenti illegali. A denunciare dal campo queste violenze, che ancora una volta evidenziano un ruolo problematico dell’Agenzia Frontex, c’è il Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino

Di quanto accade alla frontiera tra Turchia e Bulgaria si sa poco. Eppure si tratta di una delle porte dell’Unione europea sulla quale le persone in movimento sono sottoposte a continue violenze. Secondo i dati diffusi dalla stessa polizia di frontiera bulgara -una polizia a tutti gli effetti europea, avendo Sofia aderito all’Ue nel 2007- sarebbero stati 46.940 i tentativi di attraversamento cosiddetto “illegale” del confine solo nei mesi di giugno e luglio di quest’anno. Tantissime delle persone intercettate dalle autorità, dopo essere state catturate, vengono respinte in Turchia attraverso pratiche totalmente illegittime.

Chi svolge un prezioso lavoro di documentazione e testimonianza di quanto succede in questi luoghi è il Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino, impegnato nel Sud della Bulgaria, nella città di Harmanli, dove si trova il più grande campo del Paese, e Svilengrad, nelle vicinanze del campo di Pastrogor. Da metà luglio gli attivisti hanno cominciato a rispondere a chiamate di aiuto da parte di migranti in difficoltà, che hanno poi raggiunto nei punti in cui si erano fermati. Questo gli ha permesso di essere testimoni delle omissioni di soccorso e delle violenze da parte delle autorità bulgare, che spesso non avviano nemmeno le ricerche di chi si trova in situazione di urgenza.

“Pensiamo alle tante persone che ogni notte muoiono senza nemmeno poter chiedere aiuto, oltre alle poche che lo chiedono invano. Lungo le frontiere di terra come di mare, l’omissione di soccorso è una precisa strategia delle autorità -ha scritto il collettivo in un report su quanto avvenuto nel caso del salvataggio di una donna incinta e delle sue due bambine-. […] Ci è chiara l’urgenza di agire in prima persona e disobbedire a chi uccide lasciando morire”. Tra gli attivisti del collettivo che si spendono quotidianamente per portare aiuto a chi si trova in difficoltà ci sono anche Giuseppe Pederzolli e Giovanni Marenda.

Che cosa sta succedendo in Bulgaria oggi?
GM Il confine con la Turchia ultimamente è diventato un buco nero dal punto di vista informativo. Da poco abbiamo cominciato a occuparci di casi di emergenza, che ormai sono quasi quotidiani. Abbiamo un numero di telefono e un network con altre organizzazioni europee. Ci arrivano segnalazioni di persone in stato di urgenza o di stress durante il viaggio dalla Turchia. Fin dalle prime volte siamo andati di persona, oltre a dare segnalazione ufficiale al 112, perché ci siamo accorti che spesso le autorità omettono il soccorso. Mentono rispetto a quello che fanno: sostengono di stare conducendo una ricerca anche se non è vero. In alcuni casi, quando hanno capito che noi ci stavamo recando sul posto, hanno iniziato a uscire per arrivare prima di noi per sfruttare l’occasione per respingere illegalmente le persone. In sostanza, quindi, cerchiamo di arrivare sul luogo per “metterci in mezzo”, costringendo la polizia, per esempio, a far venire anche l’ambulanza o a far fare richiesta di asilo. Le autorità non possono respingere davanti ai nostri occhi.

Il campo di Pastrogor, nella municipalità di Svilengrad, in Bulgaria © Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino

Ci sono segnalazioni che ritenete particolarmente emblematiche rispetto a quanto accade sul confine turco-bulgaro?
GP Una questione importante con la quale ci stiamo misurando anche dal punto di vista emotivo è quella delle persone morte lungo i confini; anche a noi che siamo una piccola realtà arrivano segnalazioni di familiari da mezza Europa che dicono di non avere più notizie di un loro caro. Qui, al confine con la Turchia, è un problema molto rilevante. Decine di persone muoiono nella foresta. Oltre al ritrovamento c’è anche la questione della restituzione del corpo alla famiglia, che spesso non avviene. In un caso, quello di H., un migrante siriano di trent’anni, la morte ci è stata segnalata dai compagni di viaggio, che in tempi rapidi l’hanno detto anche alla famiglia. Tre attiviste sono partite verso la posizione che ci era stata mandata -e che abbiamo trasmesso più volte anche al 112-, una zona a due ore di distanza da noi. Il luogo era abbastanza difficile da raggiungere, una quarantina di minuti a piedi dalla strada principale. La polizia è arrivata circa 12 ore dopo; noi siamo rimasti lì, perché volevamo essere sicuri che la salma sarebbe stata raccolta e anche capire dove sarebbe stata portata, per darne notizia alla famiglia. Abbiamo poi coinvolto anche un’avvocata per fare da tramite ai parenti per la questione del funerale.

Tra le testimonianze che avete fornito, anche la storia di una donna incinta, soccorsa con le sue due bambine.
GM Si è trattato del nostro primo soccorso. Appena è arrivata la segnalazione abbiamo chiamato il 112; poi abbiamo capito che le autorità ci stavano mentendo: ci dicevano che c’era un’unità di ricerca sul posto, che c’era anche un’ambulanza, ma noi eravamo in contatto diretto con la donna, che per fortuna aveva con sé il telefono carico, e sapevamo che non c’era nessuno che la stava cercando, perché lei si trovava a pochi metri dalla strada. A un certo punto abbiamo deciso di andare noi, rendendo sempre noti al 112 i nostri movimenti. L’abbiamo trovata, quando siamo arrivati sul posto, semplicemente urlando per far sentire la nostra voce. Al mattino è arrivata la prima pattuglia della polizia di frontiera, che si è fermata perché ci ha visti lungo una strada molto delicata, in cui ci sono molti passaggi. Hanno iniziato a importunarci, a minacciarci. Non sapevano assolutamente nulla delle segnalazioni che avevamo fatto. Abbiamo chiesto un’ambulanza, che non è mai arrivata. Successivamente siamo stati portati alla stazione di polizia, dove è venuto un dottore, che ha fatto una visita sommaria di cinque minuti, al termine della quale ha consigliato alla donna di bere molta acqua. Poi ci hanno allontanati: per 20 giorni non abbiamo saputo più nulla della persona che abbiamo soccorso, anche se quotidianamente abbiamo cercato di rintracciarla. Alla fine avevamo quasi paura, ci eravamo convinti l’avessero respinta in Turchia. Poi abbiamo saputo, per fortuna, che era stata trasferita al campo aperto di Harmanli e che aveva potuto fare domanda d’asilo.

Avete avuto ripercussioni legali per la vostra attività?
GM Per ora non siamo mai stati denunciati o accusati di nulla, perché ci siamo sempre coperti attraverso le segnalazioni al 112. Ci sono state minacce in diverse occasioni, ci hanno detto “Vi arresteremo la prossima volta che fate cose del genere”, ma alla fine non hanno potuto farci nulla. Di certo, tuttavia, non siamo noi ad avere il coltello dalla parte del manico, è anche un discorso politico, rispetto a quanto spazio riesci a guadagnarti. La polizia di frontiera qui fa quello che vuole; abbiamo visto poliziotti con la maglietta del fascio littorio, insieme ad agenti di Frontex. L’Agenzia e l’Unione europea nei documenti ufficiali continuano a negare di essere coinvolte e sostengono di non sapere nulla di quanto succede. Nella stazione di Sredets -paese vicino al luogo di ritrovamento della donna incinta-, però, tra gli armadietti ce ne sono due riservati proprio a Frontex.

A febbraio di quest’anno a Sofia si è tenuta la conferenza “Effective EU External Borders Management” presieduta dal ministero dell’Interno bulgaro in collaborazione con l’Agenzia Frontex. In questa foto Lars Gerdes (a sinistra), direttore della sezione rimpatri e operazioni di Frontex, stringe la mano del titolare del ministero dell’Interno bulgaro, Ivan Demerdzhiev

Il collettivo non si occupa solo del soccorso e della documentazione delle violenze. Qual è la vostra storia?
GP Il collettivo è nato tra il 2018 e il 2019, dall’esigenza di stare in alcuni luoghi sui confini, innanzitutto per una questione di cura delle persone in movimento. Poi abbiamo iniziato a collaborare con diverse realtà internazionali, per esempio in Serbia, in Bosnia ed Erzegovina, in Grecia e a Trieste. Negli anni le nostre attività sono state diverse. Abbiamo iniziato, soprattutto in Bosnia, sistemando gli squat dove stavano le persone, costruendo stufe, aiutando in maniera molto pratica. Poi nel tempo ci siamo interessati alla questione igienica, quindi abbiamo costruito e diffuso ai vari gruppi internazionali dei kit doccia portatili.

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