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Il processo farsa per l’incendio di Moria nella Grecia laboratorio europeo del confinamento

L'ingresso del campo di Moria, a Lesbo, distrutto da un incendio nel settembre 2020 © Velania A. Mesay

Nel settembre 2020 le fiamme devastarono l’hotspot più grande d’Europa, a Lesbo, dove più di 12mila persone si trovavano in condizioni disastrose. Sei ragazzi afghani sono stati messi in mezzo ma inchieste indipendenti hanno smontato le accuse giunte ormai fino all’appello. Fu un momento spartiacque nelle politiche dell’Ue. Ecco perché

A Lesbo, a metà marzo, c’è stato il processo d’appello per quattro dei sei ragazzi afghani accusati di aver dato inizio al rogo che quattro anni fa ha distrutto l’hotspot più grande d’Europa. Era la notte dell’8 settembre del 2020 quando le fiamme hanno avvolto il centro di identificazione e registrazione di richiedenti asilo e migranti dell’isola greca. In poche ore, complice il forte vento che c’era quella sera, l’incendio si è propagato con una velocità tale da ridurre in cenere tutte le tende ufficiali e non del campo. All’epoca vi trovavano alloggio, in condizioni disastrose, più di 12mila persone.

A distanza di pochi giorni, a finire in prigione per i fatti di quella notte sono stati appunto sei ragazzi afghani. Sulla base della loro condanna c’è solo una testimonianza: quella di uomo, loro connazionale, che dichiarò alla polizia di averli visti appiccare il fuoco. Un uomo che non è mai apparso in alcun processo, irreperibile, scomparso. Ma dalle sue parole è dipeso il futuro di sei giovanissimi che hanno visto bruciare anche il sogno di una nuova vita in Europa, passando dall’inferno di Moria a una cella in una prigione greca. I sei sono di etnia hazara, la minoranza sciita più perseguitata del Paese mediorientale, l’uomo che invece li accusò è di etnia pashtun. È lecito chiedersi se dietro le sue affermazioni ci fossero questioni inerenti a una conflittualità erede dei contesti di provenienza. Una teoria portata avanti anche dai loro legali che nelle varie udienze hanno chiesto alla corte di non tenere conto della sua dichiarazione. La falsità delle sue accuse è stata provata anche dall’indagine svolta da Forensic architecture, gruppo di ricerca multidisciplinare che utilizza tecniche e tecnologie architettoniche per indagare le violazioni di diritti umani, che tramite le immagini satellitari del campo e dei video girati dagli stessi migranti, è stata in grado di creare un modello tridimensionale di Moria e ha ricostruito l’espansione dell’incendio. Lo studio dimostra come le dichiarazioni dell’uomo non combacino con il reale luogo di inizio del rogo.

A gettare ombre sul processo sono state anche le modalità con cui si è svolto. I primi a salire sul banco degli imputati sono stati due dei sei ragazzi, che all’epoca dei fatti hanno potuto dimostrare di essere minori non accompagnati. Sono stati giudicati colpevoli con una condanna a cinque anni di prigione. Come emerge da un’inchiesta del Guardian, uno dei due, pochi giorni prima dell’incendio, aveva ricevuto esito positivo per la domanda d’asilo e avrebbe dovuto raggiungere suo fratello in Francia. Sorge spontaneo chiedersi perché, dopo tanta attesa, avrebbe dovuto mandare tutto all’aria proprio pochi giorni prima di lasciare l’isola.

Il primo processo per gli altri quattro ha avuto luogo a Chios nel giugno del 2021. Con la scusante della pandemia da Covid-19, l’udienza si è tenuta a porte chiuse, escludendo dunque la presenza di giornalisti e rappresentanti delle agenzie umanitarie. I legali hanno denunciato che durante il processo vi sarebbero stati vari problemi legati alle traduzioni degli atti. Inoltre, nonostante tre degli accusati fossero minorenni all’epoca dei fatti, sono stati comunque giudicati da un tribunale per maggiorenni. L’esito della sentenza è stata una condanna al massimo della pena: dieci anni di prigione per “incendio doloso con il rischio di aver messo a repentaglio delle vite umane”. Una condanna dal forte sapore politico che sembra esser frutto più di una necessità di cercare un capro espiatorio che quella di far giustizia.

Nel ricordo di chi ha vissuto quelle drammatiche ore dell’incendio affiorano dettagli non ancora presi in considerazione da parte della corte. Molti profughi dicono di aver visto degli abitanti locali delle zone limitrofe al campo approfittare dell’incendio già in corso per contribuire a espanderlo appiccando altri roghi. Un’informazione difficile da dimostrare a distanza di anni ma che pare essere rimasta nella memoria collettiva di chi ha vissuto quella notte. Si hanno invece le prove video del lancio dei lacrimogeni da parte della polizia durante l’incendio che hanno sicuramente giocato un ruolo, seppur minoritario, nell’espandersi del rogo.

Nonostante questi elementi, il processo d’appello terminato a marzo 2024 ha comunque riconfermato la pena iniziale per uno dei quattro imputati accettando solo uno sconto per buona condotta, da dieci a otto anni di reclusione. Come ci conferma lo studio legale che ha seguito il caso, agli altri tre che si erano dichiarati minorenni fin dall’inizio è stata finalmente riconosciuta la minore età all’epoca dei fatti. La loro precedente condanna è stata dunque annullata e verranno rilasciati in un regime di libertà vigilata. Una vittoria illusoria visto che comunque, nel prossimo futuro, saranno nuovamente processati con le stesse accuse presso il tribunale dei minori.

L’incendio di Moria ha segnato uno spartiacque nella gestione dei migranti nelle isole dell’Egeo. Ad andare a fuoco quella notte non sono state soltanto delle tende, ma un modello ben preciso d’accoglienza: quello degli hotspot. La Grecia sin dal 2013 si è configurata come un laboratorio dove si sono sperimentate le politiche europee in materia di immigrazione e Lesbo ne è stato l’emblema. Nel 2020, l’anno dell’incendio, Ursula von der Leyen aveva definito il Paese ellenico lo “scudo d’Europa”, trasferendo 700 milioni di euro per far fronte all’ennesima “crisi migratoria” scatenata dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che, con fare ricattatorio, aveva aperto le sue frontiere marittime e terrestri scatenando un esodo di migliaia di persone. È in quell’anno che il campo di Moria raggiunge numeri mai visti prima: più di ventimila persone in un centro ideato per poco più di tremila. Gli incendi erano cosa frequente e non di certo per la presenza di piromani. Le necessità basilari di dover cucinare con fornelli a gas, i frequenti cortocircuiti, erano già degli elementi sufficienti per scatenare roghi; basti ricordare che in uno di questi, a marzo del 2020, morì una bambina di appena sei anni.

Dopo Moria il governo greco decide di inaugurare un nuovo modello, quello dei centri chiusi ad accesso controllato (Ccac). Gli viene in ausilio L’Ue che stanzia 276 milioni di euro per finanziare il progetto. Alle tende vengono sostituiti i container e in cambio di un’apparente condizione igienico-sanitaria migliore di quella degli hotspot, la permanenza si tramuta in uno stato di semi-detenzione. I Ccac sono circondati dal filo spinato, gli accessi vengono severamente controllati dalle forze dell’ordine che sorvegliano gli ospiti del centro grazie a un sofisticato sistema tecnologico che va dall’uso di telecamere, a metaldetector, raggi X, droni e tornelli. Sorgono in aree remote, lontani dai centri cittadini, nel tentativo di non creare più clamore o scontento da parte delle popolazioni locali delle isole che mal hanno sopportato l’arrivo dei migranti in questi anni.

Il primo di questi centri è stato inaugurato a Samos nel settembre del 2021. Poi sono seguite le isole di Kos e Leros. Anche a Lesbo, non senza polemiche, ne è stato costruito uno in un’area a Nord dell’isola, Vastria. Pure in questo caso si è scelto un luogo distante da qualsiasi servizio. Il centro, ad oggi ancora chiuso, sorge nel mezzo di una riserva naturale circondato da un bosco, tanto da aver scatenato la reazione della popolazione dell’isola che ha inscenato proteste contro la sua apertura. I residenti temono che se scoppiassero incendi in quella zona sarebbero difficilmente domabili e rischierebbero di distruggere una parte significativa dell’entroterra.

Costruire un centro simile lontano dalle zone urbane significa imprigionare le persone in un luogo dove gli accessi basilari ai servizi, come cure mediche, sportelli legali, corsi educativi sono inaccessibili in quanto troppo distanti per essere raggiunti. Il grande lavoro delle Ong nelle isole dell’Egeo è servito negli anni ad attenuare e sopperire alle mancanze del governo greco anche perché il loro operato si svolgeva nelle aree circostanti ai centri, non al loro interno dove spesso l’accesso viene negato. La scelta di allontanare ulteriormente questi centri risponde a una precisa volontà politica di cancellare dalla memoria dei cittadini greci la pagina delle migrazioni. Lesbo dal 2015 era stata invasa da volontari, giornalisti, reporter, fotografi e televisioni che accorrevano per aiutare o descrivere le gravi condizioni nelle quali versavano i richiedenti asilo e migranti nello scempio di Moria. Anche l’incendio è stato raccontato da centinaia di professionisti che fecero finire la notizia sulle prime pagine dei quotidiani internazionali di tutto il mondo. Quell’attenzione, con i nuovi centri, è scemata. Tante Ong hanno dovuto abbandonare le isole per mancanza di fondi. Anche di giornalisti non se ne vedono molti. Far dimenticare, affievolire l’attenzione: ebbene, se questo era l’obiettivo dell’esecutivo guidato da Kyriakos Mītsotakīs, si può dire che per ora è stato centrato.

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