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Chiuso a Lesbo un campo per migranti vulnerabili. Che cosa succede sull’isola greca

Il governo greco ha chiuso il centro di Kara Tepe, che garantiva condizioni di accoglienza accettabili ai richiedenti asilo più vulnerabili. Quattrocento persone sono state trasferite in un campo sovraffollato dove gli standard sono inadeguati. Per Medici senza frontiere è una decisione “irrazionale”

Il campo di Kara Tepe sull'isola di Lesbo © UN Photo/Rick Bajornas

“In Grecia sull’isola di Lesbo dopo l’incendio dell’hotspot di Moria, avvenuto lo scorso settembre, per i migranti gli standard dell’accoglienza continuano a essere al di sotto della soglia minima. La politica del governo sembra essere quella di scoraggiare nuovi arrivi rendendo la permanenza nel Paese non sopportabile”. A parlare ad Altreconomia è Mara Eliana Tunno, psicologa di Medici Senza Frontiere che fornisce supporto legale e medico ai migranti arrivati sull’isola dell’Egeo. Tunno si sta riferendo alla chiusura del centro di Kara Tepe 1 -decisa dal governo greco nel settembre 2020 e resa effettiva dopo otto mesi-, una delle poche strutture a Lesbo che “garantiva sicurezza e dignità per le persone vulnerabili e con fragilità”, spiega. I trasferimenti dei 600 migranti che vi erano accolti -famiglie, minori e donne sole vittime di violenze e torture- sono iniziati nella notte tra il 24 e il 25 aprile: quattrocento persone sono state condotte nel sovraffollato campo di Mavrovouini, dove si trovano già seimila persone, e duecento sulla terraferma.

“È una scelta del tutto irrazionale. Kara Tepe 1 era uno dei pochi campi in Grecia che si poteva definire dignitoso. Ha una capienza da mille persone ed era organizzato in piccole comunità abitative. È attivo dal 2015 e negli anni ha migliorato i suoi servizi grazie all’intervento delle organizzazioni umanitarie e dei volontari che hanno investito risorse ed energie”, prosegue Tunno. Al suo interno erano inoltre organizzati spazi di aggregazione e attività ricreative, come i corsi di lingua greca e lezioni per i bambini ai quali non viene garantita alcuna istruzione fino a quando rimangono nei campi. “Le persone sono state allontanate senza che venisse fornita loro alcuna spiegazione. E la decisione è stata presa dal governo greco che, invece di creare alloggi più dignitosi, sta continuano a replicare il modello del campo di Moria”, aggiunge.

Nell’hotspot di Moria, bruciato l’8 settembre 2020, si trovavano più di 12mila persone: quattro volte la sua capacità effettiva. Medici Senza Frontiere aveva denunciato condizioni di vita al limite della sopportazione con servizi igienici assenti e il sovraffollamento che aumentava la tensione e lo stress aggravando le condizioni di salute delle persone accolte. Dopo la sua distruzione, i migranti erano stati trasferiti nel campo di Mavrovouini costruito dal governo greco, sostenuto dalla Commissione europea, su un ex poligono di tiro di fronte al mar Egeo. La struttura è stata soprannominata “Moria 2.0” perché ne ricorda le condizioni. Al suo interno le persone sono costrette a vivere in tendoni posizionati in prossimità del mare, continuamente allagati e inadatti a proteggere dal caldo e dal freddo. “Le condizioni igieniche sono pessime e nei tendoni non c’è alcuna privacy. Queste situazioni aggravano il già compromesso stato di salute mentale delle persone più fragili e le fanno ammalare perché determinano una continua riattivazione dei traumi subiti nel passato, durante il viaggio e poi all’arrivo”, spiega Tunno. “I nostri pazienti soffrono di disturbi da stress post-traumatico e pensano anche al suicidio. Una bambina di otto anni, dopo l’incendio di Moria, si è completamente chiusa in se stessa. Oggi non parla e non reagisce agli stimoli esterni”.

Anche Oxfam e il Greek Council Refugees, in un rapporto pubblicato nell’aprile 2021, hanno denunciato le inaccettabili condizioni di accoglienza sulle isole greche dove ad oggi, stando ai dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) aggiornati al 25 aprile, sono 13.250 i richiedenti asilo e i rifugiati e 9.650, circa il 73%, si trovano nei centri di accoglienza e identificazione. Secondo l’impropriamente detto accordo “Ue-Turchia” siglato nel 2016, i migranti sbarcati sulle isole devono presentare domanda di asilo nel luogo di arrivo e qui sono obbligati ad aspettare l’esito della procedura che può prolungarsi per anni. Tra le persone sbarcate sulle isole dell’Egeo, il 50% proviene dall’Afghanistan, il 15% dalla Siria e l’8% dalla Somalia. Le donne costituiscono il 21% della popolazione e i bambini il 26%. Tra questi, il 7% è un minore non accompagnato. Sempre secondo i dati dell’Unhcr, aggiornati al febbraio 2021, sono 173mila i richiedenti asilo e rifugiati presenti in tutto il Paese dove si trovano, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, 30 campi operativi di prima accoglienza.

Le due organizzazioni Oxfam e Greek Council Refugees hanno evidenziato come l’emergenza sanitaria stia peggiorando le condizioni per i migranti anche se gli arrivi sulle isole sono diminuiti: sempre secondo i dati dell’Unchr infatti, da febbraio a marzo 2021 gli sbarchi sono calati dell’86% rispetto al 2020. Nel rapporto si sottolinea un crescente uso della detenzione amministrativa come nel caso della struttura temporanea di Megala Tempa, nel Nord dell’isola di Lesbo: il campo è stato allestito per permettere ai migranti di trascorrere il periodo della quarantena di due settimane ma il tempo, denunciano le organizzazioni, può raddoppiare senza che sia fornita una giustificazione. Nel periodo in cui sono trattenuti i richiedenti asilo non ricevono un’adeguata assistenza sanitaria, legale e psicologica perché l’effettiva procedura di accoglienza inizia solo quando è terminata la quarantena.

Nella struttura di Megala Tempa al 31 marzo 2021 c’erano 233 donne, 73 uomini e 83 bambini di cui 33 sono minori soli non accompagnati. Al suo interno alla fine di febbraio 2021, 13 richiedenti asilo, tra cui donne in stato di gravidanza e famiglie con bambini, sarebbero stati allontanati con la forza e rimandati in Turchia, dopo essere stati picchiati con manganelli e derubati. Secondo le testimonianze delle vittime, le violenze sarebbero state commesse da quattro uomini, che indossavano divise senza numero identificativo e un passamontagna, arrivati nel campo a bordo di un furgone. I richiedenti asilo sarebbero poi stati respinti verso la Turchia a bordo di zattere di fortuna.

In un appello lanciato alle istituzioni europee, Oxfam e Greek Council Refugees chiedono che i richiedenti asilo siano ricollocati al di fuori della Grecia, che siano accelerate le procedure per ottenere la protezione internazionale e che venga sempre garantito l’accesso alle cure mediche, incluse quelle inerenti la salute mentale, e l’assistenza legale. Chiedono inoltre la riduzione del ricorso alla detenzione amministrativa, da valutarsi per ogni singolo caso, e che vi siano esclusi i bambini.

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