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“Agàpe”, il film che tratta l’immigrazione con il linguaggio universale dell’amore

© Agàpe

Il documentario dei registi Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares raccoglie le testimonianze dei migranti bloccati per anni a Lesbo e a Cipro. Un racconto che esplora l’amore come forma di resistenza, andando oltre le narrazioni del dolore e del trauma legate alle migrazioni. Proiezioni in anteprima a Roma, Milano e Bologna

Per Platone esistevano tre termini per descrivere l’amore: eros, quello fisico, philia, quello fraterno e agàpe, quello spirituale, cioè totalmente disinteressato. Con ogni probabilità è a quest’ultima definizione che si sono ispirati i registi Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares per dare un titolo al loro documentario, “Agàpe”, che raccoglie le voci dei migranti trattenuti sull’isola greca di Lesbo e a Cipro.

Già vincitore del premio di distribuzione Cg entertainment “Popoli doc” al festival dei Popoli di Firenze, “Agàpe” ricorda i “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini e si discosta dalla narrazione prevalente su questo tema: mentre la maggior parte delle testimonianze giornalistiche si concentra sul dolore, la disperazione e le violazioni dei diritti umani subite dalle persone in transito, il documentario di Mesay e Bares sceglie un approccio inedito. Per due anni i registi hanno viaggiato lungo le frontiere d’Europa, raccogliendo decine di interviste. Con l’obiettivo di raccontare aspetti spesso trascurati: le storie personali, familiari e intime dei migranti.

“Agàpe” non si sofferma dunque sulle terribili esperienze del viaggio migratorio, ma lascia che siano le persone a raccontarci i loro sentimenti: l’amicizia, l’amore, i legami familiari. La forza di queste emozioni, insieme ai volti degli intervistati, emerge come una potente testimonianza di fronte alle avversità. Il documentario si propone di sensibilizzare istituzioni e società civile sul tema della migrazione con una chiave di lettura diversa, più intima e personale. Il documentario vuole stimolare una riflessione privata e collettiva sui sentimenti, sull’amore, partendo proprio da quelle persone che spesso vengono considerate come “gli ultimi”.

Velania A. Mesay e Tomi Mellina Bares, perché avete deciso di discostarvi dal racconto mainstream, focalizzandovi sulle storie personali? Che tipo di impatto volete ottenere con questa scelta?
VM e TMB Discostarsi senza allontanarsi. Il racconto di superficie, delle masse, dei numeri degli arrivi e dei morti, il racconto analitico che il giornalismo utilizza per informarci è necessario. Vitale per non dimenticarci che cosa avviene lungo le frontiere europee. Ma è altrettanto vitale per noi cittadini ricordare che i migranti sono persone. Sono uomini, donne e bambini ad affogare, a essere torturate, a essere rinchiuse negli hotspot e nei Cpr. Riportare al pubblico frammenti di singole vite, lasciando solo come lontano sfondo il racconto politico e quello dei grandi numeri, è un tentativo di avvicinare a queste tematiche. Abbiamo provato a discostarci dalla narrazione del dolore perché crediamo che ci sia già una sovrabbondanza di immagini di sofferenza e violenza, che paradossalmente hanno allontanano il pubblico. 

In che modo avete costruito un rapporto di fiducia con i protagonisti del documentario? Come avete gestito le sfide linguistiche e culturali durante le interviste? Sull’aspetto produttivo: quanti anni di lavoro avete impiegato e quanti viaggi?
VM e TMB La fiducia si costruisce con il tempo speso insieme. È un codice umano, una regola non scritta. In una permanenza sul luogo di venti o trenta giorni le interviste ci venivano concesse solo negli ultimi due o tre, quando ormai quelle persone avevano inteso le intenzioni del progetto e ci passavano il testimone della divulgazione. Spesso ci dicevano: “Torna in Europa e racconta quello che hai visto”. Anche se si trovavano in Grecia o a Cipro -quindi, formalmente nel territorio dell’Unione- per loro l’Europa era lontanissima. Purtroppo necessità commerciali -e non solo dei media- obbligano a formulare domande dirette in interviste di pochi minuti, che non permettono di ingaggiare conversazioni. Noi abbiamo avuto la fortuna di poter spendere molto tempo in quei luoghi, cosa che ci ha permesso costruire rapporti di fiducia e scendere in profondità con gli intervistati. Negli ultimi tre anni ci siamo interfacciati con operatori umanitari e medici, ma anche e soprattutto le persone che vivevano nei centri di accoglienza a Lesbo e a Cipro e che, nel fortunato caso parlassero inglese, potevano introdurci a nuove conoscenze e tradurre le nostre domande. Nella maggior parte dei casi però, le loro risposte sono state tradotte solo quando siamo tornati in Italia: molti tesori nascosti nelle parole di chi abbiamo incontrato, li abbiamo potuti ascoltare solo lo scorso anno.

Quali sono i sentimenti che avete voluto esplorare in “Agàpe”? In che modo credete che il film possa contribuire a una nuova visione del tema migratorio?
VM e TMB Nel documentario si esplorano tutte le sfumature dell’amore. Crediamo che parlarne sia un esercizio per riportare questo tema su un piano umano. Tutti -a prescindere dal proprio ceto sociale, nazionalità, sesso, età, credenze religiose- si possono riconoscere nelle parole dell’amore, anche chi non ha un percorso migratorio alle spalle. Il nostro è un tentativo per riumanizzare. Viviamo in un’epoca in cui le persone in movimento sono state disumanizzate. Sappiamo che il principale responsabile è la politica, che ha fatto di loro strumenti di campagne propagandistiche fagocitando i peggiori istinti razzisti che ribollono nella nostra società. Abbiamo il dovere di agire, di combattere questa narrazione e per farlo ci servono degli strumenti nuovi: noi abbiamo scelto il linguaggio dell’amore perché universale. Vorremmo anche che chi la pensa diversamente venisse a vedere “Agàpe”: i sentimenti di una madre verso un figlio non hanno colore politico. Vogliamo raccontare ciò che ci unisce invece di ciò che ci divide. 

Quali sono le vostre speranze per il film in termini di sensibilizzazione e cambiamento? Come credete che possa influenzare le istituzioni e la società civile?
VM e TMB Le inchieste giornalistiche hanno la potenzialità di cambiare lo stato delle cose: possono mettere in difficoltà interi governi, rendere fragili le multinazionali. Film e documentari non hanno più questa forza perché è venuto a mancare l’intermediario più importante di cui si serviva il cambiamento sociale: il pubblico. Forse sollecitano ragionamenti nuovi nello spettatore o, nel migliore dei casi, lo spingono a rivedere le sue condizioni. Ma dovrebbero poter raggiungere un’ampia platea e soprattutto stimolarla tutta allo stesso modo. Non credo poi vi sia ulteriore bisogno di influenzare le istituzioni: in televisione vediamo persone lasciate affogare in mare o rinchiuse negli hotspot da quando andavamo alle scuole medie. È un fenomeno che è stato raccontato fino al feticismo. Si sono susseguiti governi di tutti gli schieramenti eppure le cose sembrano addirittura essere peggiorate. Crediamo sia più importante rivolgerci ai cittadini: quando i migranti non saranno più utilizzati come strumento per accaparrarsi voti forse le cose miglioreranno. Ma questo dipende da chi vota, non da una quota della politica che fino a quando riscuoterà successo con determinati slogan non si farà remore nell’utilizzare i migranti come capro espiatorio.

Abbiamo fiducia nelle nuove generazioni: le nostre scuole sono già testimoni di un cambiamento inarrestabile in atto da più di trent’anni. Tra alcuni anni avremo sindaci, governatori, presidi e politici figli di quanti sono sbarcati a Lampedusa o che hanno affrontato in prima persona questi viaggi pericolosi. È successo in Germania, dove lo scorso luglio un ragazzo siriano arrivato a Lesbo nel 2015 è diventato sindaco del piccolo Comune di Ostelsheim. Anche in Italia avremo una nuova classe politica e cittadina figlia dei movimenti migratori di questi anni. È un destino al quale non possiamo sfuggire. C’è solo da chiedersi: come vogliamo che avvenga? Quanta sofferenza, quanti diritti negati, quanti morti ci devono essere prima che spostarsi da un luogo a un altro, per chi viene dai Paesi del cosiddetto Sud globale, diventi legale? L’Europa pagherà caro l’enorme carico di dolore ed ingiustizia che sta causando a queste persone. Singolarmente e collettivamente dovremmo sforzarci di comprendere la Storia anche quando questa si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Un giorno ci verranno a chiedere come sia stato possibile che per superare una frontiera è stato necessario rischiare la vita, come abbiamo potuto permettere che quel bambino morisse di ipotermia in un bosco dei Balcani, che una madre non potesse più abbracciare più suo figlio perché deceduto nel Mediterraneo. 

© Agàpe

Quali sono state le storie più toccanti che avete incontrato durante la realizzazione del film?
VM e TMB Il film è un racconto corale. Non c’è una storia in particolare sulla quale ci si focalizza di più e abbiamo fatto questa scelta proprio perché volevamo raccogliere un ventaglio di opinioni e testimonianze. Naturalmente ci siamo affezionati maggiormente alle persone con cui abbiamo trascorso più tempo, come Mustafa che appare all’inizio e alla fine del documentario. La sua storia non viene narrata in “Agàpe”, ma è emblematica. Fuggito dall’Afghanistan, con il sogno di ricostruirsi una vita in Europa e di gettare le basi per l’arrivo della sua famiglia, è arrivato a Lesbo da ragazzino, lo abbiamo conosciuto nella sede di un Ong che si trovava fuori dal campo di Mavrovouni e si è offerto di aiutarci con le traduzioni. Quando lo abbiamo incontrato la prima volta, la sua richiesta d’asilo era stata rigettate per ben tre volte e nel frattempo la sua famiglia aveva provato a raggiungerlo, ma senza successo: al confine tra la Turchia e l’Iran erano stati intercettati dalla polizia e deportati in Afghanistan.

Lo abbiamo incontrato di nuovo, a maggio 2022 a Lesbo: a nove mesi dal ritorno al poter dei Talebani gli era stato concesso finalmente l’asilo e la possibilità di lasciare l’isola. È arrivato in Germania a settembre dello stesso anno e un mese dopo sua sorella ha perso la vita in un attentato contro la scuola sciita che frequentava, nel quartiere hazara di Kabul. Pochi mesi dopo, quando lo abbiamo raggiunto a Würzburg per le riprese del documentario, abbiamo saputo che anche sua madre era morta di stenti e di dolore. Mustafa ha recentemente ottenuto protezione in Germania: ora un adulto ma ha perso tutto. Ha perso lo scopo stesso per il quale aveva intrapreso il viaggio verso l’Europa. Il suo morale è in frantumi, ma quando lo abbiamo intervistato è sempre lui a suggerirci che “l’amore è l’unica forma di resistenza alla quale ci possiamo aggrappare”. 

“Agàpe” è prodotto da Confronti Kino, sarà in anteprima a Bologna, Milano e Roma il 23, 24 e 25 febbraio 2024. La prima tappa sarà a Bologna, dove il film sarà proiettato il 23 febbraio alle 20 al Cinema Modernissimo. L’evento sarà preceduto da un incontro al quale parteciperanno Luca Rizzo Nervo (assessore comunale a Welfare e salute, nuove cittadinanze, fragilità, anziani, disabilità), Yassine Lafram (coordinatore della comunità islamica di Bologna), Claudio Paravati (ricercatore), Timothy Raeymaekers (ricercatore presso il dipartimento di Storia culture civiltà dell’Università di Bologna); modera Luigi Monti. Il 24 febbraio, alle 17, il film verrà presentato al Cinema Beltrade di Milano da Maurizio Ambrosini (professore presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università degli Studi di Milano), Daniela Persico (critica e programmatrice cinematografica), Claudio Paravati (ricercatore); modera Dario Zonta. Infine, il 25 febbraio alle 18 “Agàpe” approda al Cinema Troisi di Roma, con la partecipazione di Annalisa Camilli (giornalista di Internazionale) e Goffredo Fofi (direttore della rivista “Gli Asini”) moderati da Luca Attanasio. Gli appuntamenti sono patrocinati da Amnesty International e A Buon Diritto, e i registi saranno presenti a tutte le proiezioni.

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