Diritti / Approfondimento
Fuori le università dall’industria delle frontiere. L’appello di “Divest borders”
Nel Regno Unito una rete studentesca chiede alle istituzioni britanniche (e non solo) di non collaborare con le aziende coinvolte nella gestione securitaria dei confini. Il Politecnico di Torino è sotto accusa per questo a seguito di un contratto firmato con Frontex. Il 22 dicembre il Senato accademico deciderà come procedere
Disinvestire dagli affari “sporchi” della frontiera. Con questo obiettivo una rete di studenti e studentesse del Regno Unito ha lanciato a metà novembre la campagna “Divest borders” chiedendo alle università pubbliche del Paese di non collaborare con aziende, società e istituzioni che sono coinvolte nell’attuale approccio securitario al fenomeno migratorio. Il business della frontiera è attivo su molti fronti: dal campo della biometria a quello dei centri di detenzione passando per i servizi necessari per i rimpatri forzati dei “cosiddetti” irregolari. “Le università sono profondamente invischiate nell’industria di frontiera con i loro investimenti, ricerca e partnership -si legge nel manifesto del movimento-. Un impegno delle istituzioni a disinvestire da questi affari sarebbe una forte dichiarazione che delegittima l’industria e stigmatizza coloro che vi partecipano e ne traggono profitto”. Un movimento che riguarda da vicino anche l’Italia. Uno dei punti “principali” contestati rispetto all’accordo di cui ha dato notizia Altreconomia tra il Politecnico di Torino e Frontex, l’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee, riguarda proprio la “licenza di agire” che contratti simili forniscono a un’istituzione accusata di violare i diritti umani delle persone in transito.
Come ricostruito da uno studio del centro di ricerca Trasnational institute (tni.org), il mercato della sicurezza della frontiera vive “un’espansione incredibile e immune dalla crisi economica e dall’austerità” registrando una crescita annuale che oscilla tra il 7,2% e l’8,6%: entro il 2025 dovrebbe raggiungere un giro d’affari compreso tra i 65 e i 68 miliardi di euro. Nel manifesto del movimento vengono messe “sotto accusa” le aziende coinvolte in questi affari.
Airbus è un’azienda europea che progetta e produce servizi militari. Si è aggiudicata, tra i tanti, un contratto da 50 milioni di euro per fornire a Frontex droni per la sorveglianza aerea, con lo scopo di tracciare il movimento dei migranti alla deriva nel Mediterraneo. La Serco -che ha sede nel Regno Unito- fattura tre miliardi di sterline l’anno e si è specializzata nella gestione dei centri di detenzione: in totale sette sul territorio britannico. Centri in cui l’azienda “per massimizzare i profitti risparmia sui costi di gestione garantendo scarsa sicurezza e benessere a chi è rinchiuso”. Ancora, la multinazionale irlandese Accenture -che ha un giro d’affari pari a 43 miliardi annuali- dalla cosiddetta crisi dei rifugiati del 2015 sta facendo affari nel settore della biometria considerata la “nuova frontiera” dell’industria di confine. Tra le aziende citate troviamo anche Leonardo (già Finmeccanica), azienda con sede a Roma attiva nei servizi di controllo del territorio. Il 9 febbraio 2021 si è aggiudicata un appalto del ministero dell’Interno per il noleggio annuale di un drone per sorvegliare il Mediterraneo per un totale di 6,9 milioni di euro per un anno. “Chiediamo il ritiro di tutti gli investimenti da qualsiasi società impegnata o supportata dalla violenza relativa alla detenzione, all’espulsione, alla sorveglianza o all’uso della forza nel controllo delle frontiere” si legge nel manifesto della campagna Divest borders.
La richiesta alle università di disinvestire su aziende per la loro condotta eticamente discutibile non è nuova. “Questo approccio ha avuto un grande successo nel movimento per la giustizia climatica -spiegano gli attivisti-. Oltre 90 università si sono impegnate a disinvestire dai combustibili fossili nell’ultimo decennio”. Anche rispetto alla tematica dei migranti c’è un precedente: nel 2015 in Australia è stata lanciata una campagna per delegittimare l’azione delle società che gestivano i centri di detenzione per stranieri in condizioni critiche. Il governo ha fatto fatica a trovare contraenti per affidare la gestione di questi siti dovendone chiudere alcuni. Sono tre le richieste degli studenti e dei firmatari della petizione: l’adozione di una politica di investimento etico che sia pubblico e che escluda le società del settore frontaliero, l’esclusione di tali aziende dai loro investimenti e la rescissione dai contratti attualmente esistenti entro tre anni. “La complicità delle università nell’industria di confine è duplice. In primo luogo, molte università detengono investimenti significativi in queste aziende, spendendo le tasse universitarie -una parte significativa delle quali è pagata da studenti stranieri- per aiutare l’industria di frontiera a trarre profitto dalle sofferenze degli altri. In secondo luogo, gli investimenti universitari danno alle aziende una ‘licenza sociale’ per operare; un senso di rispettabilità che deriva dall’associazione con un’istituzione pubblica”.
Proprio di questa “licenza sociale” si discuterà mercoledì primo dicembre alle 17.30 al Politecnico di Torino. In un’assemblea aperta organizzata da diverse associazioni e movimenti che si occupano della tutela dei diritti delle persone in transito -a cui parteciperà anche Altreconomia– si discuterà del contratto sottoscritto da Polito con Frontex per la produzione di cartografia. L’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee è accusata di essere coinvolta in violazioni dei diritti umani dei migranti che tentano di raggiungere l’Unione europea: come spiegato anche dal professor Michele Lancione nella sua presa di distanza pubblica dall’accordo “il problema sta nel prestare il proprio nome -individuale e istituzionale- alla legittimazione dell’operato di una agenzia come Frontex. Perché quello si fa, quando si collabora: si aiuta l’apparato violento e espulsivo dell’Unione europea a legittimarsi, a rivestirsi di oggettività scientifica, a ridurre tutto a una questione tecnica che riproduce il suo male riducendolo a un passaggio di carte tra mani”.
Dopo che la notizia è stata ripresa da altre testate -tra cui il manifesto, Internazionale e le edizioni locali de La Stampa e la Repubblica– anche internamente qualcosa si è mosso. Caterina Mele, componente del Consiglio di amministrazione e il professor Pietro Mandracci, rappresentante degli associati in Senato hanno scritto al rettore chiedendo spiegazioni rispetto alla mancata risposta da parte dell’Ateneo dopo la pubblicazione della notizia. La scorsa settimana Guido Saracco ha risposto al movimento Abolish Frontex, una campagna internazionale che chiede l’abolizione dell’Agenzia e che aveva scritto agli uffici dell’università torinese per chiedere di rescindere dall’accordo. “L’Ateneo si è dotato da tempo di un codice etico e, in modo pioneristico, ha approvato recentemente un manifesto della ‘Research integrity’ con relativo regolamento applicativo -si legge nella risposta di Saracco-. Ho avviato un’indagine conoscitiva che si concluderà con la valutazione da parte del Senato Accademico nel mese di dicembre”. Appuntamento al 22 dicembre. Il “disinvestimento dagli affari della frontiera” riguarda anche le università italiane.
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