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“Contro i borghi, per i paesi”. Perché dobbiamo ridare dignità ai territori

L’ultimo libro dell’associazione Riabitare l’Italia analizza lo storytelling intorno ai borghi e spiega perché fa male a ogni politica contro lo spopolamento delle aree interne. Intervista ad Antonio De Rossi e Filippo Barbera

Paraloup, la borgata alpina recuperata dalla Fondazione Nuto Revelli © Luca Martinelli

“Si scrive ‘contro i borghi’ ma si legge ‘per i paesi'”, attacca Filippo Barbera, ordinario di Sociologia economica presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. “Contro i borghi” è l’ultimo libro che ha curato con Antonio De Rossi (professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana e direttore dell’Istituto di architettura montana presso il Politecnico di Torino) e Domenico Cersosimo (ordinario di Economia applicata all’Università della Calabria) per l’editore Donzelli, la raccolta di una ventina di saggi brevi che raccontano “il Belpaese che dimentica i paesi”. Un libro-progetto che -spiega De Rossi- è stato realizzato in appena quattro mesi: “L’idea è nata a marzo, il 2 aprile abbiamo organizzato un seminario, coinvolgendo gli autori e l’editore, a fine giugno siamo arrivati in libreria”.

L’urgenza di questo libro, all’interno dell’associazione Riabitare l’Italia -di cui i tre curatori fanno parte-, nasce dall’esigenza di “sgomberare il campo, di ripulire una discussione ormai viziata, una narrazione ‘sui borghi’ che è patologicamente urbana, malata di metrofilia e molto borghese (come spiega il saggio di Giovanni Semi), di una borghesia che si crede riflessiva e green, oggi un po’ stanca di queste città calde e alla ricerca della frescura” sottolinea Barbera. Se durante il lockdown alcune archistar avevano alzato l’asticella del dibattito su questi temi, è a cavallo tra il 2021 e il 2022 che esplode un fenomeno che possiamo definire di “abuso del borgo”: prima con la linea A del Bando borghi gestito dal ministero della Cultura, nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che ha destinato 20 milioni di euro a venti progetti “esemplari” di rigenerazione, uno per Regione, quasi esclusivamente a fini turistici, poi la diffusione del cortometraggio “Presto sarà domani”, firmato dal regista Michele Placido e prodotto da Deloitte in collaborazione con Goldenart Production. Gli attori Riccardo Scamarcio e Carolina Crescentini sono protagonisti di un video surreale ambientato in un’Italia 2026 dove -grazie al Pnrr- i giovani lavorano in smart working nei bar di un centro storico del Centro Italia, dove esiste solo un’agricoltura di prossimità e le persone si muovono con auto o monopattini elettrici.

ll centro storico di Visso, ancora chiuso nell’estate 2021 dopo il terremoto del 2016 © Luca Martinelli dell’agosto 2021

Un documento utile a comprendere come vengono percepiti in determinati ambienti i paesi italiani: “Come ci ha suggerito Carmine Donzelli, il borgo narrato e idealizzato è un insediamento per sottrazione che racconta di progetti per i territori che cancellano storia, geografia e rapporti col contesto. Una narrazione che ipostatizza, elimina conflitto, comunità, relazioni, un po’ un selfie del mondo” spiega Barbera. Ecco perché c’era bisogno di un pamphlet polemico, che a differenza degli altri libri curati dall’associazione per Donzelli (sempre nella primavera del 2022 è uscito anche “L’Italia lontana”, sull’esperienza della Strategia azionale per le aree interne, Snai) non contiene pars costruens. 

Riviste e tv hanno costruito -racconta Antonio De Rossi- “un immaginario su questi luoghi che prima non esisteva, perché quand’ero bambino, negli anni Settanta, una borgata alpina era privata di ogni valore, che fosse simbolico, d’uso, di scambio, di mercato, e il borgo era un luogo rifiutato, se non per le poche San Gimignano d’Italia”. Negli anni Novanta il fenomeno è cresciuto, con l’avvio di azioni di marketing territoriale che hanno creato una certa ambiguità. “Nel momento in cui appaiono sul campo risorse economiche, che non sono solo quelle presenti nel ‘Bando borghi’, i paesi diventano un luogo di conflitto e questo libro serve anche per dipanare la presenza di due posizioni: da una parte sta chi pensa che l’Italia dei paesi sia uno sfondo paesaggistico dove andare a rigenerarsi, per mangiare nei ristorantini tipici (come spiega nel libro il saggio di Michele Antonio Fino) e dall’altra chi come noi ritiene che quei luoghi sono abitati da comunità, persone che hanno bisogni e desideri, che hanno necessità di una rigenerazione sociale e non solo fisica. Ecco perché, per noi, il borgo non può essere disegnato come un microcosmo perfetto, come un presepe, totalmente chiuso e funzionale alla creazione di un’atmosfera, all’evocazione della convivialità”.

Rubiamo le parole di Letizia Bindi, che nel suo saggio “Oltre il ‘piccoloborghismo’: le parole sono pietre” scrive: “Intorno ai piccoli ‘borghi’ si sviluppa l’idea di una sostenibilità economica, sociale e culturale delle aree interne, dei territori spopolati e fragili. La narrazione più recente insiste sullo smart working come modalità per tornare a vivere in montagna o nelle aree periferiche, ma vi sono nodi cruciali da affrontare perché questa prospettiva sia verosimile”. “La narrazione che contestiamo -riprende Antonio De Rossi- è funzionale al fatto che alcuni luoghi possano attrarre risorse per operazioni di natura puntuale. La decostruzione del libro serve a svelare che la presunta attenzione all’Italia dei borghi non è un progetto di rigenerazione delle aree interne, ma l’avvio con modalità verticali di una serie di operazioni fini a se stesse, quelle che han fatto muovere un certo establishment culturale italiano. In quest’ottica i borghi attirando l’attenzione portano buio e abbandono nei territori circostanti”. 

A conferma di questa tesi sono i dati dell’ultima revisione della classificazione dei Comuni delle aree interne, pubblicata a inizio 2022, che certifica un progressivo indebolimento dei servizi essenziali di cittadinanza: nel 2020 il numero dei Comuni che ricadono nella definizione di “periferico” e “ultra-periferico” (cioè quelli caratterizzati rispettivamente da una percorrenza superiore ai 40,9 minuti o ai 66,9 minuti dai “poli” dov’è presente un’articolata offerta scolastica secondaria superiore, un ospedale sede di Dipartimento di emergenza urgenza e accettazione di I livello e una stazione ferroviaria di livello Platinum, Gold o Silver) cresce del 7,9%, passando in valore assoluto da 1.767 a 1.906. Vi abitano 5,37 milioni di italiani, contro i 4,22 milioni del 2014. È il “buio” da illuminare di cui parla De Rossi e che Filippo Barbera evidenzia nel saggio che firma con Joselle Dagnes, creando uno splendido neologismo, Bruttitalia, per porre l’accento sulla “vita quotidiana dove i turisti non vogliono andare”.

“Se il tema diventa l’abitabilità quotidiana dei territori e non l’attrattività turistica, dentro il policentrismo che l’immaginario dei borghi deforma, allora il tema vero è come riabitare quei luoghi che non rientrano nelle categorie estetizzanti. Prendi due posti belli nelle tua Regione, distanti almeno un’ora, se vai tra uno e l’altro, passi in mezzo a molti posti brutti, ma importanti e carichi di senso per quelli che ci vivono. Le politiche devono garantire servizi essenziali perché le persone siano libere di vivere a Santhia o a Carbonia e non solo nella bella Ostana (vedi Ae 240). Lavorare per l’abitabilità quotidiana è la leva che ti permette di trattare in modo uguale anche un territorio brutto: se ci si concentra solo sul ‘borgo’ questo non è possibile”, sottolinea Barbera.

“Questo concetto di abitabilità -continua la riflessione De Rossi- obbliga a confrontarsi con il concetto di aree interne come luogo della produzione, con una dimensione produttiva legata a risorse dirette o processi di innovazione, a mestieri tradizionali riletti in chiave contemporanea. Ne scrive Rossano Pazzagli nel suo saggio, ‘Oltre le mura’. Credo, inoltre, che le aree interne potrebbero trasformarsi in laboratori per affrontare il cambiamento climatico. Presumendo un aumento medio delle temperatura di 4 o 5 gradi centigradi a fine secolo, in questa estate torrida e senz’acqua più che pensare a marketing e alla valorizzazione turistica dovremmo prendere in considerazione il fatto che per quattro mesi all’anno la Pianura Padana sarà un luogo invivibile, e quindi sarà automatico e ineluttabile vedere migrazioni quanto meno temporanee e periodiche verso le terre alte”.
La differenza tra borgo e paese, spiega Barbera, è che i secondi “non sono luoghi ameni solo per chi ha risorse, economiche ma anche di tipo culturale. Immaginando il policentrismo come bene collettivo, come strategia, potremmo passare da una concezione classista a uno scenario futuro legato ad esempio alla necessità di un’agricoltura di montagna viva in una società vecchia, di anziani che in estate non potranno vivere negli ipermercati ma -come persone fragili- potranno essere accolte nelle aree interne. Se il Pnrr avesse pensato alla messa in sicurezza e all’abitabilità metromontana di questi territori, e non al turista, forse sarebbe stato sensato. Investendo su residenzialità temporanea, doppie abitazioni, servizi e strutture collettive. Serviva, però, una visione politica. Come spiega ‘L’Italia lontana’ sono state le strutture dello Stato e dentro la classe politica e dirigente ad aver osteggiato la Strategia nazionale per le aree interne (Snai)”.

È a partire da questo che diventa importante tornare a chiamare i borghi “paesi”, parafrasando il titolo del saggio di Pietro Clemente: “Una sorta di cortocircuito di concetti che fa pensare a chiese, mura, castelli, piazze ma mai a cascine, stazzi, masserie e soprattutto mai al mondo del sapere e saper fare connesso con agricoltura, allevamento e paesaggio culturale. Come dire che solo i luoghi fisici simbolo del potere possono aspirare a fondi pubblici per una rinascita culturale mentre così non può accadere per le eredità del lavoro e dell’uso dello spazio, elementi questi ultimi che danno vita alla coscienza di luogo e a un possibile approccio territorialista”. Paesi capaci di relazionarsi con la città, per cancellare una presunta contrapposizione che non fa bene: “La polis deve diventare ‘nemica’ per poter affermare i valori positivi della vita nei borghi. Ed è questo forse il limite che lo storico più coglie in un processo che sta ancora di più segnando le diseguaglianze dei nostri giorni. Il borgo è una nuova forma di gated community all’europea, che ci piaccia o meno” scrive Carlo Olmo.

Per rispondere all’esigenza di oltrepassare questa barriera semantica e culturale, una possibile risposta è quella legata al movimento lento che permette di cogliere le relazioni tra paesi e Bruttitalia. Lo suggerisce un intervento firmato dal professor Paolo Pileri, editorialista di Altreconomia, sempre nel libro “Contri i borghi”: “Se è innegabile che il turismo possa essere un’opzione non trascurabile per il futuro dei borghi, è altrettanto irrinunciabile dibattere su quale turismo e a quale costo. Il borgo non solo è una unità delicatissima della vicenda urbana, ma va visto dentro un antico sistema di relazioni, a scala territoriale, retto da fili leggeri che lo legavano ad altri borghi, alle campagne attorno, ai boschi, alle città più grandi. Questi fili sono i sentieri”. 

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