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Le piccole scuole delle aree interne: laboratori di didattica innovativa

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I plessi delle zone periferiche soffrono le difficoltà legate alla diminuzione degli allievi e alle scarse risorse. Per resistere sperimentano nuovi modelli educativi “aprendo” le classi alla collettività e stringendo alleanze con gli enti locali

Tratto da Altreconomia 249 — Giugno 2022

“Una comunità non può definirsi tale senza una scuola: per dare una prospettiva e un futuro a un paese bisogna partire dai ragazzi”. È da questo pensiero che è nata l’idea di Anna Micelli, sindaca di Resia, piccolo Comune della montagna friulana situato all’interno del Parco nazionale delle Prealpi Giulie, di rivoluzionare l’istruzione nel suo paese. “Lo stabile aveva bisogno di un adeguamento antisismico -spiega-, che rendeva più conveniente realizzare un nuovo edificio piuttosto che ristrutturare quello vecchio. Abbiamo quindi deciso di costruire una scuola da zero e di prendere la palla al balzo per innovare non solo l’immobile, ma anche i contenuti e le modalità di insegnamento, realizzando un percorso partecipato con l’Università di Udine, il Parco nazionale delle Prealpi Giulie e l’istituto comprensivo di riferimento, che è quello di Trasaghis (UD)”. 

Le piccole scuole come quella di Resia, in Italia, non sono poche. Una ricerca dell’Istituto nazionale documentazione innovazione ricerca educativa nel contesto del Movimento delle piccole scuole (Indire, svolta insieme al Miur, nel 2020-2021 ha rilevato che questi istituti sono 9.123: 7.435 tra infanzia e primaria (fino a 125 alunni) e 1.688 secondarie (fino a 75). “I plessi delle aree interne -afferma Giuseppina Rita Jose Mangione, referente della ricerca- potrebbero essere trainanti nel cambiamento dei modelli educativi, se si iniziano a vedere le loro caratteristiche in termini di potenzialità e non di difficoltà”. Un elemento su cui le scuole delle aree meno popolate possono essere d’esempio per quelle situate in città è la creazione di Patti educativi di comunità, strumenti che consentono all’ambiente didattico di allargarsi alla collettività e di costruire alleanze con gli enti locali, le realtà del Terzo settore, le istituzioni pubbliche e private. È possibile così aprire le classi al territorio, svolgendo attività didattiche in contesti sia formali che non formali, in un’ottica di learning by doing. “Nell’istituto comprensivo Capraia e limite, in provincia di Firenze -racconta Mangione-, le aule sono state estese ai piccoli musei, in modo da poter fare lezione anche all’interno delle sale espositive. Questa esperienza è un modello che il Movimento delle piccole scuole promuove a livello nazionale”.  

La comunità di Resia sarà coinvolta nella progettazione della nuova didattica, che dovrà essere il più possibile legata al territorio: dal mese di aprile di quest’anno -dopo alcuni ritardi dovuti all’emergenza sanitaria- sono cominciati dei percorsi partecipati assieme ai resiani, che permetteranno di delineare insieme quali siano i punti fondamentali per l’istruzione dei bambini e dei ragazzi di montagna. Quello che ne scaturirà sarà un modello educativo calato sulle specificità e sulle esigenze dell’area, una vera e propria “scuola nel parco”, dove si possa apprendere, accanto alla matematica e all’italiano, anche i saperi tradizionali e il rispetto della natura nelle sue diverse declinazioni, dal bosco agli animali. 

Rinnovare l’offerta formativa di Resia è un modo per rendere i suoi plessi attrattivi; in pochi anni, infatti, gli studenti -dall’infanzia alla secondaria di primo grado- sono scesi da 180 a 53. La stessa esistenza della scuola  è a rischio, a causa del massiccio spopolamento. “Per sedersi sui banchi alcuni alunni delle frazioni devono fare anche 40 minuti di strada ogni mattina -afferma Micelli-. È evidente che se dovessero andare da qualche altra parte, ancora più lontano, l’intera famiglia abbandonerebbe il borgo”. 

“I plessi delle aree interne possono essere trainanti nel cambiamento dei modelli educativi. Serve vedere le loro caratteristiche in termini di potenzialità” – Mangione

La tendenza a perdere gli alunni non è un fenomeno limitato all’Alto Friuli: gran parte delle aree interne, soprattutto quelle montane e delle piccole isole, ne sono colpite. “Dirigo due istituti comprensivi, per un totale di venti piccoli plessi, tutti sopra gli 800 metri di altitudine, nella zona del Comelico, in provincia di Belluno -racconta la dirigente, Morena Di Bernardo-. Prendendo il caso di uno dei due: dal 2013 ad oggi siamo passati da 778 a 502 allievi. Senza contare gli alunni di Sappada, Comune passato al Friuli-Venezia Giulia nel 2017 dopo un referendum popolare, diciamo che abbiamo perso circa 120 alunni, che sono tantissimi”. 

Il numero minimo di studenti per formare una classe, in una situazione normale, è 15; nelle aree interne c’è una deroga ministeriale, per cui sono sufficienti dieci allievi. Questa concessione, tuttavia, non è sempre sufficiente. “Nei miei nove anni di dirigenza -continua Di Bernardo- le pluriclassi sono passate da essere l’eccezione a diventare la regola”. I bambini delle zone periferiche, da Nord a Sud, spesso si trovano a imparare insieme a studenti di età diverse, nella stessa aula, con un solo insegnante. Secondo la ricerca dell’Indire, le pluriclassi sono circa duemila su tutto il territorio nazionale. “Questo tipo di didattica  non è per forza negativa -spiega Viviana Ferrario, docente di Geografia all’università Iuav di Venezia e presidente della fondazione Comelico dolomiti – Centro studi transfrontaliero-. Dà la possibilità agli alunni di vivere l’apprendimento in un contesto eterogeneo, elemento che è caratteristico delle piccole comunità e che può costituire una forma di arricchimento. Certo, c’è bisogno di una formazione maggiore per i docenti”.

Sono circa 2mila le pluriclassi su tutto il territorio nazionale secondo una ricerca realizzata dall’Indire. Il numero minimo di studenti per formare un classe è 15, ma per le aree interne sono sufficienti dieci alunni. Spesso, però, nelle zone periferiche i bambini si ritrovano in classi con studenti di età diverse 

Maestri e professori per entrare in una pluriclasse devono essere preparati a una didattica diversa rispetto a quella che si può fare in città, più calata sul territorio e sulle sue specificità. “Sarebbe bello -continua Ferrario- che venissero inserite nel percorso scolastico anche le lingue di minoranza, in modo da valorizzare e tramandare la cultura e le tradizioni locali”. Se in un mondo ideale gli insegnanti delle piccole scuole dovrebbero essere preparati in modo specifico al contesto in cui andranno a lavorare, la realtà dei fatti è ben diversa. “Nelle aree marginali c’è un altissimo turn over nel corpo docente -afferma Maria Rita Infurna, ricercatrice in psicologia dinamica dell’Università di Palermo che ha collaborato come progettista alla Strategia nazionale per le aree interne-. Spesso, infatti, queste zone sono scomode da raggiungere, poco servite dai trasporti. C’è una grande difficoltà a chiudere l’offerta formativa in tempo e spesso i dirigenti si vedono costretti a iniziare l’anno senza avere tutto il personale necessario”. 

Anche per quanto riguarda il digitale, queste realtà scontano dei ritardi. “Ogni zona ha le sue specificità e quindi presenta problematiche diverse -continua Infurna-, ma molto spesso c’è un forte digital divide, mancano la fibra e la connessione veloce, per esempio”. È proprio su questo gap tecnologico che sono andate a intervenire alcune delle progettazioni locali della Strategia nazionale aree interne, la politica di coesione del 2013 che ha destinato 281 milioni di euro -a cui si sono aggiunti altri 210 milioni di euro nel 2019- per contrastare la marginalizzazione e il declino demografico di alcune zone della Penisola. Di questa dotazione finanziaria, circa 123 milioni di euro sono andati all’istruzione. “Nell’area del Fortore, in Molise -racconta Infurna- si è deciso di puntare molto sulle strategie didattiche, soprattutto per quanto riguarda il digitale; nell’area delle Madonie in Sicilia, il lavoro si è concentrato sulla messa in rete delle scuole, in modo da creare una governance centralizzata per istituti di diversi Comuni, dalla montagna fino al mare, che possa far da volano per progettualità innovative e per la sostenibilità delle azioni scelte”. La tecnologia, anche prima del Covid-19, era vista come un modo per uscire dall’isolamento per le aree interne. “Stiamo acquistando dei computer con cui scambiare informazioni in cloud -dice la dirigente di Bernardo- perché il futuro è questo e non possiamo prescindere dalla connessione a internet”. 

Sono 123 i milioni di euro destinati all’istruzione nella Strategia nazionale aree interne, la politica di coesione che dal 2013 a oggi ha destinato, in totale, 491 milioni di euro per contrastare la marginalizzazione e il declino demografico di alcune zone del Paese

Se la digitalizzazione è uno sguardo verso ciò che sarà, le scuole periferiche possono mantenere anche un’attenzione particolare a ciò che è stato, ai saperi tradizionali. “Con l’Officina montagna del Cantiere Friuli, il progetto di sviluppo territoriale dell’Università di Udine -dice Valentina De Marchi, antropologa e presidente di Isoipse associazione di professioniste che hanno unito le loro competenze per raccontare e valorizzare le zone montane che ha collaborato con l’ateneo per questa iniziativa- abbiamo svolto una ricerca sul campo; ne è risultato che la montagna può essere un laboratorio pedagogico a cielo aperto, con un contesto ambientale e sociale capace di stimolare la creatività e il problem solving”. 

“La montagna può essere un laboratorio pedagogico a cielo aperto, con un contesto ambientale e sociale che stimola la creatività e il problem solving” – De Marchi

Valore fondamentale dei piccoli paesi è l’intergenerazionalità: le persone giovani e quelle più anziane si conoscono, comunicano, collaborano, hanno la possibilità di incontrarsi e quindi di scambiare visioni del mondo e competenze. L’intera comunità diventa comunità educante, che può venire coinvolta e integrata nella didattica più convenzionale. “Ovviamente il contesto delle aree marginali -continua De Marchi- si presta anche all’outdoor education, legata alle risorse dell’ambiente e alla scoperta della biodiversità”. 

Le piccole scuole, quindi, non sono una brutta copia di quelle più grandi in città: sono realtà con alcune problematiche ma anche con molte ricchezze da riconoscere e valorizzare, al di là dei semplici dati numerici. “Il ministero concede delle deroghe per i plessi delle aree interne -afferma Infurna- ma molti istituti si lamentano che non sono adeguatamente flessibili rispetto alle caratteristiche dei territori”. Particolarmente sentita è, per esempio, la questione del personale amministrativo che, dove i numeri degli studenti non sono sufficientemente alti, viene assegnato a scavalco tra più sedi, rendendo difficoltosa la realizzazione e la gestione dei progetti scolastici. “C’è bisogno di azioni sinergiche di sviluppo -conclude la ricercatrice- che migliorino anche i trasporti e i servizi in generale, per incentivare le famiglie a rimanere nei borghi montani. Quello che è auspicabile, in buona sostanza, è un maggior ascolto dei territori e una maggiore flessibilità delle politiche a livello ministeriale”.  


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