Diritti / Opinioni
AIDS: non c’è tempo da perdere
Identificare i casi di infezione e garantire le terapie non è sufficiente. Occorrono strumenti ulteriori come spiega Msf. La rubrica di Luigi Montagnini, medico senza frontiere
Nel 2018 sono morte (ancora) 770mila persone per AIDS, compresi 100mila bambini, nonostante l’efficacia e la quantità dei farmaci disponibili. Introdotta a metà degli anni 90 con la sperimentazione delle prime associazioni farmacologiche, la terapia antiretrovirale (ART) garantisce oggi una aspettativa e una qualità di vita normali. All’inizio la terapia veniva offerta solo a coloro che mostravano segni di peggioramento del proprio sistema immunitario, ora, grazie alla drastica riduzione degli effetti collaterali dei nuovi farmaci, è stata adottata la strategia “test and treat”: chiunque risulti positivo al test dell’HIV dovrebbe iniziare l’ART per azzerare la quota di virus presente nel sangue e nei fluidi genitali e cancellare il rischio di trasmissione dell’infezione. Il virus rimane però sempre nascosto in alcuni organi ed è pronto a ritornare in circolo nel caso di inefficacia o di sospensione della terapia.
Esistono tre popolazioni di persone che possono trasmettere l’infezione: quelle che non sanno di essere sieropositive, quelle che sono infette ma non assumono i farmaci (perché troppo costosi o non disponibili o perché non sufficientemente motivate e supportate per continuarne l’assunzione) e quelle che hanno sviluppato resistenza alla terapia ma non lo sanno perché non monitorate.
2,8 / 1.000: è il tasso annuale di decesso per tumore in Italia; 2,2 su 1.000 è quello per AIDS in Mozambico
È soprattutto su questa ultima classe di pazienti che si sofferma il nuovo rapporto di Medici Senza Frontiere “No time to lose: detect, treat and prevent AIDS”, pubblicato in occasione dell’ultima giornata mondiale per la lotta all’AIDS e che ha analizzato la situazione di 15 Paesi: Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, eSwatini, Guinea, India, Kenya, Lesotho, Malawi, Mozambico, Myanmar, Nigeria, Sudafrica, Sud Sudan, Uganda e Zimbabwe. Il dato rilevante emerso è che non basta più identificare i casi di infezione da HIV, o garantire l’ART alle persone sieropositive, ma servono strumenti per verificare la risposta alla terapia e per trattare le infezioni opportunistiche, cioè legate al deficit iniziale del sistema immunitario quando la terapia inizi a risultare inefficace.
Le infezioni opportunistiche sono le principali cause di morte tra gli adulti con stadi avanzati di infezioni da HIV e comprendono tubercolosi, meningite criptococcica, infezioni batteriche gravi, polmonite da pneumocystis, toxoplasmosi e sarcoma di Kaposi. Nel 2018, la tubercolosi ha causato circa 251mila decessi tra le persone sieropositive, rappresentando un terzo dei decessi correlati all’AIDS. Se lo stato immunitario di un paziente sieropositivo è monitorato nel tempo, le infezioni sono però prevenibili e trattabili.
Le linee guida specifiche, elaborate dalla WHO due anni fa, prevedono che sia i test rapidi, sia i trattamenti per tubercolosi, meningite, infezioni batteriche gravi e sarcoma di Kaposi siano disponibili in ogni Paese. Non è sempre così. In molti contesti manca anche un adeguato livello di assistenza sanitaria di base all’interno delle comunità per identificare i pazienti affetti da forme iniziali di soppressione immunitaria, tubercolosi e malattia criptococcica prima che si ammalino gravemente. Ancora una volta, insieme all’impegno da parte di governi, agenzie internazionali, donatori e organizzazioni di mantenere l’AIDS in cima alle agende ed evitare discontinuità nella fornitura di farmaci e di strumenti diagnostici, è indispensabile intensificare i programmi incentrati sulle comunità, la chiave per ridurre la mortalità.
Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese, Londra e Genova, oggi vive e lavora ad Alessandria, presso l’ospedale pediatrico “Cesare Arrigo”. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.
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