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Diritti / Reportage

A un anno dal terremoto gli abitanti di Antakya lottano per non perdere la casa

L'avvocato Ecevit Alkan con la vista del nuovo cantiere lungo il fiume Oronte © Ylenia Gostoli

Il 6 febbraio 2023 due forti scosse devastarono la Turchia meridionale e il Nord della Siria. Erdogan aveva promesso di realizzare più di 300mila case entro l’anno: obiettivo mancato. I proprietari temono di non poter sostenere i costi della ricostruzione mentre la città è vittima di interessi speculativi in cerca di profitti facili

Dal 6 febbraio dell’anno scorso, quando alle prime ore dell’alba un terremoto di 7.9 gradi della scala Richter ha fatto tremare Turchia e Siria, Ridvan e Nazire Topuz, una coppia di settantenni, vivono in un tempo sospeso fra il dolore e l’incertezza. La palazzina dove abitavano con la famiglia estesa ad Armutlu, un quartiere adiacente al centro storico di Antakya, la città che più di qualsiasi altra ha subito le conseguenze devastanti del terremoto, è uno dei pochi edifici a non essere ancora stato demolito nella zona. A un anno dal sisma, si ergono solitari e vuoti come i primi denti nella bocca di un neonato, in un quartiere che prima del terremoto era uno dei più densamente popolati della città.

“Se ci avessero permesso di riparare l’edificio, ora non sarebbe in questo stato”, dice Ridvan, facendo riferimento al fatto che i saccheggiatori hanno portato via finanche le porte. Dopo il terremoto, il loro edificio, dichiarato “mediamente danneggiato”, è rimasto in un limbo legale che il governo ha deciso di risolvere lo scorso novembre dichiarando il quartiere come “area di riserva” per la costruzione attraverso un emendamento alla legge sulla trasformazione urbana del 2012 che consentirà di riclassificare anche le zone già edificate. L’Unione delle camere degli ingegneri e degli architetti turchi (Tmmob) ha chiamato la nuova legge, che verrà applicata in tutto il Paese, un “piano di espropriazione”.

“Non sappiamo nulla, nessuno ci dà risposte chiare”, dice Ridvan, un autista in pensione che dice di essere arrivato “fino in Siberia” in 40 anni di lavoro per costruire questa palazzina di proprietà di famiglia. “Ogni volta che vengo qui mi ci vogliono tre settimane per riprendermi,” dice Nazire in arabo, mentre i due anziani girovagano all’interno dell’edificio, sulla cui facciata si legge la scritta “non demolire: mediamente danneggiato”, intesa per gli operatori dei bulldozer che da un anno a questa parte hanno trasformato questo quartiere in modo tale che anche i suoi abitanti non riescono più a riconoscerne le strade. Esaminano i detriti con gli occhi fissi a terra, tra l’intonaco parzialmente crollato, i materassi squarciati e poco altro che non sono riusciti a salvare. Nazire trova al piano terra una foto del loro vicino di casa e se la mette in tasca. “Se potessimo lavorare sarebbe diverso, se avessimo un altro pezzo di terra metteremmo lì un container”, dice la donna, spiegando che attualmente vivono in un appartamento poco fuori dalla città e che nonostante i sussidi statali fanno fatica a pagare l’affitto.

Circa 280mila edifici in 11 province della Turchia meridionale sono crollati o sono stati “fortemente danneggiati” dalle due scosse di terremoto, verificatesi a nove ore di distanza l’una dall’altra il 6 febbraio. Il bilancio delle vittime supera i 50mila solamente in Turchia. Secondo le autorità locali, almeno 20mila sarebbero le vittime solo nella provincia di Hatay. La maggior parte della popolazione di Antakya si è trasferita in altre province, sulle colline circostanti la città o in uno dei numerosi accampamenti istituiti da enti governativi e Ong, dove i sopravvissuti vivono in container.

Fondata nel 300 a.C. da uno dei generali di Alessandro Magno e conosciuta in antichità come Antiochia, il capoluogo della provincia di Hatay è da sempre un importante snodo culturale e commerciale. Gli abitanti di questa regione al confine con la Siria non mancano di ricordare ai visitatori di come qui le minoranze linguistiche, religiose e culturali -aleviti e cattolici, armeni e curdi- abbiano sempre continuato a convivere mantenendo la loro identità di fronte al nazionalismo del Paese, laico o religioso che sia.

Ridvan e Nazire Topuz nella loro casa danneggiata dal terremoto nel quartiere di Armutlu © Ylenia Gostoli

Dopo le accuse di aver permesso che la speculazione e l’edilizia scadente producessero città estremamente vulnerabili, il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva promesso di ricostruire più di 300mila case entro l’anno. Secondo un calcolo di Reuters, ad agosto era stata avviata la costruzione di 122.891 unità abitative. Da mesi il governo ha smesso di pubblicare i dati.

La maggior parte degli edifici classificati come “gravemente danneggiati” sono stati demoliti. Per mesi, dei camion gialli ne hanno trasportato le macerie in diversi siti della provincia, ricoprendo la città di un pulviscolo grigio e -secondo gli ambientalisti- potenzialmente tossico.

Prima del terremoto, la sponda occidentale del fiume Oronte era occupata da edifici residenziali per lo più costruiti nel ventesimo secolo, prima dell’adozione del codice antisismico dopo l’ultimo terremoto che ha colpito la Turchia nel 1999. Secondo gli esperti, tra i fattori che hanno reso Antakya particolarmente vulnerabile ci sono, oltre alla vicinanza a una faglia sismica, la pessima progettazione, l’uso di materiali scadenti, la densità, ma anche la sua posizione lungo il corso del fiume, il cui suolo composto di materiali sedimentari è particolarmente instabile.

“Il terreno qui è molto problematico, perché è vicino alla riva del fiume Oronte”, spiega l’avvocato Ecevit Alkan, che assiste alcuni dei residenti della “zona di riserva” a intentare una causa contro lo Stato. “Ma dal punto di vista economico questa è la località più pregiata di Hatay”, dice mentre gli escavatori trivellano il terreno per gettare le fondamenta di nuovi edifici. “Vedi come sono profonde le fondamenta? Questi palazzi saranno molto costosi”, continua l’avvocato, mentre dalla cima di una vicina collina il rumore metallico delle trivelle e delle ruspe quasi soffoca la chiamata alla preghiera del muezzin.

Sull’altra sponda del fiume giace l’antica Antiochia, con le sue case in pietra, i mosaici bizantini e le chiese trasformate in moschee. Nel vivace bazar, molti negozianti hanno deciso di riaprire i battenti nonostante l’esodo di massa dalla città e la devastazione. Alcuni hanno installato dei bancali improvvisati tra le rovine perché i loro clienti li ritrovino dove sono sempre stati. Un paio di alberghi storici su via Kurtulus (della liberazione), conosciuta come la prima strada illuminata al mondo, hanno timidamente riacceso le insegne. Sono stati avviati o in fase di progettazione lavori di restaurazione e riqualificazione di alcuni edifici storici.

Alcuni negozi del bazar di Antakya hanno riaperto tra le rovine © Ylenia Gostoli

Mentre qualche mese fa, tra le macerie, le rovine e la polvere, sembrava impensabile che Antakya avrebbe potuto rimettersi in piedi, ora non è difficile immaginare un futuro in cui la città potrebbe nuovamente diventare un’ambita meta turistica. Ma il masterplan della città, al quale starebbe lavorando il rinomato studio dell’architetto di Istanbul Bunyamin Derman, non è ancora stato ufficialmente pubblicato. Fatta eccezione per alcune immagini di nuovi moderni quartieri esposte sulle barriere intorno alle zone dove i lavori sono stati avviati, non ci sono informazioni ufficiali su cosa si stia effettivamente costruendo.

“Questo è proprio uno dei problemi”, osserva Alkan. “Una volta aperto il caso, lo Stato dovrà fornire le informazioni alla Corte”, spiega. Secondo una mappa dell’area di riserva visionata da Altreconomia, quattordici studi di architettura incluso lo studio di Derman stanno lavorando alla riqualificazione di diverse parcelle di terreno all’interno della zona di riserva.

Per Mehtap Aslanyuregi, membro del consiglio della Camera degli Architetti di Hatay, a causa dell’alto tasso di mortalità in questa zona della provincia, ci vorrà molto tempo prima che gli eredi possano ricostruire. “Al momento non è possibile rafforzare nemmeno le case con danni da moderati a bassi, e i costi sono altissimi”, spiega. Né lo studio di Derman, né il ministero dell’Ambiente, dell’Urbanizzazione e del Cambiamento climatico, responsabile dell’area di riserva dopo la sua dichiarazione, hanno risposto a una richiesta di ulteriori informazioni.

Secondo una stima dell’Ordine degli avvocati di Hatay, circa 50mila persone vivevano nei quartieri dichiarati come aree di riserva prima del terremoto, pari a 207 ettari, equivalenti a circa due chilometri quadrati. “L’area designata come zona di riserva è estremamente vasta”, dice Alkan. “Le persone in quella zona hanno perso tutto, dal lavoro ai legami familiari. Non solo la città è praticamente distrutta, ma è anche in rovina dal punto di vista economico”, commenta facendo notare quanto i costi di costruzione siano aumentati negli ultimi anni anche per via dell’inflazione galoppante, registrata al 64,8% su base annua a dicembre, mentre la lira turca ha toccato un nuovo minimo storico contro il dollaro statunitense all’inizio di gennaio. Ad aprile 2023 l’indice dei costi di costruzione degli edifici era aumentato del 54,55% annuo, secondo l’Istituto turco di statistica.

“Se anche nelle grandi città come Istanbul e Ankara la gente non può permettersi di comprare una casa, chiedere ai terremotati di pagare un prezzo sconosciuto per nuovi edifici è ingiusto e contro i diritti umani”, riflette Alkan. Sarà difficile per chi ha perso tutto anche ripagare i mutui agevolati offerti dallo Stato.

“Impossibile, come potrei pagare il mutuo con il mio salario di 600 euro al mese?”, si chiede Mesut Zateroglu, 43 anni, che vive in una tenda che il suo datore di lavoro, il Comune di Hatay, gli ha concesso di erigere sul retro di una delle sue sedi. Sua madre, suo fratello e sua sorella vivono in un container in uno degli accampamenti che punteggiano il paesaggio della città. Dice che ha deciso di vivere qui, in una tenda che ha isolato con materiale termico, perché il container era troppo piccolo per tutti. La loro casa ad Armutlu è già stata demolita mesi fa perché giudicata gravemente danneggiata.

L’agenzia statale per l’edilizia popolare, TOKİ, sta costruendo palazzine sulle colline intorno alla città, in nuovi quartieri satellite a venti minuti dal centro, che ora sono nient’altro che paesini rurali raggiungibili attraverso strade dissestate. Alcuni degli edifici sono quasi terminati.

“La nostra principale preoccupazione come architetti e cittadini è che la vita ritorni ad Antakya, che le persone possano tornare in una città più bella e più resistente ai terremoti”, commenta Mehtap Aslanyuregi della Camera degli architetti di Hatay. “TOKİ costruisce edifici robusti ma le case qui dovrebbero essere più in linea con lo stile delle vecchie abitazioni di Hatay, per far sì che le persone vorranno viverci e tornare”, aggiunge, spiegando che uno dei problemi è proprio l’assenza di un piano unificato e coordinamento tra gli enti statali e locali per la ricostruzione della città. Sono molti in città a temere che possa perdere la sua diversità, che il terremoto possa diventare una scusa per accelerare il processo di gentrificazione. “Prima bisognerebbe considerare la questione sociale e psicologica”, conclude Alkan. “Sono arrivati qui come se l’unico problema fosse costruire una casa e consegnarne le chiavi”.

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