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Esteri / Reportage

Erdoğan vuole cambiare il volto di Istanbul. Ma c’è chi resiste

La politica urbanistica del governo espelle le fasce di popolazione più povere dai quartieri del centro per creare occasioni di investimento e profitto. Gli attivisti del Center for spatial justice promuovono un’idea diversa dell’abitare

Tratto da Altreconomia 250 — Luglio/Agosto 2022

Per arrivare a Istiklal caddesi, la via dello shopping e del divertimento di Istanbul, basta lasciarsi alle spalle piazza Taksim con la sua imponente moschea e farsi guidare dal fiume di turisti e cittadini attratti dalle vetrine colorate dei negozi e dei tanti bar e ristoranti che si alternano quasi all’infinito sui due lati della strada. 

Istiklal caddesi (la via dell’Indipendenza) è il simbolo della movida stambuliota e della modernità, ma è stata trasformata in uno spazio anonimo, difficilmente distinguibile dalle vie dello shopping delle grandi città occidentali. Un’omologazione di certo non casuale, ma anzi in linea con il progetto urbanistico portato avanti dal governo di Recep Tayyip Erdoğan e che ha interessato in particolar modo la città di Istanbul. Attraverso la trasformazione dell’ambiente urbano, il presidente punta a plasmare la società e ad aumentare il controllo su di essa, limitando gli spazi di socializzazione e appiattendo il più possibile le diversità sociali secondo una logica che premia l’omologazione e il profitto. Da qui la scelta di vendere ai privati palazzi storici del quartiere Beyoğlu, in cui si inserisce la stessa Istiklal caddesi, e di limitare il più possibile gli spazi pubblici, privilegiando la nascita di centri commerciali e altri luoghi in cui il divertimento e la condivisione sono alle dipendenze del capitale. 

La trasformazione dello spazio come mezzo di controllo non è certo una novità in Turchia, ma Erdoğan, che dal 2002 ha ricoperto sia la carica di primo ministro sia quella di presidente, ha saputo sfruttare più di altri il legame tra spazio e potere, con risvolti elettorali importanti. Il desiderio di cambiare il volto di Istanbul gli ha permesso di consolidare i legami con le grandi compagnie edili, diventate bacino elettorale decisivo per il successo del presidente e del suo partito, l’Akp. 

A pagarne le conseguenze, invece, sono state prima di tutto le classi sociali più povere e gli immigrati, costretti ad abbandonare le loro case per essere ricollocati in quartieri periferici e privati improvvisamente dei loro legami sociali. “Nelle loro nuove abitazioni non hanno più occasioni di incontro con gli altri, non possono nemmeno più coltivare quegli orti e quei giardini che erano utili alla loro sussistenza. Il cambiamento che gli è stato imposto non ha alterato solo lo spazio fisico in cui abitavano, ma ha avuto effetti su tutti gli aspetti della loro vita”. A spiegare il legame tra l’ambiente fisico e quello sociale è Bahar, attivista del Center for spatial justice. L’associazione, fondata nel 2016, è nata allo scopo di proteggere la memoria storica di Istanbul e promuovere un’idea dell’abitare che vada oltre il semplice accesso ad una casa poco costosa. Con il tempo, l’Ong ha allargato il suo orizzonte alle aree rurali e ha stretto legami con altre organizzazioni che lottano per il diritto all’abitare e il rispetto dell’ambiente. 

“Cancellare la memoria collettiva di un luogo e la sua storia permette di controllare più facilmente le persone, limitandone anche la capacità di organizzarsi” – Bahar

La dimensione collettiva del Centro è evidente già nella scelta della sede. Postane, un edificio storico nato come ufficio postale britannico, oggi è uno spazio di lavoro aperto a tutti, in cui negozi solidali che rivendono prodotti locali si alternano a sale per eventi e riunioni, mentre il terrazzo, con la sua vista sulla torre di Galata, è occupato da un orto curato da un gruppo di volontari.

L’aspetto partecipativo del funzionamento dell’Ong è anche alla base del progetto di mappatura del quartiere centrale di Beyoğlu, strumento di resistenza utile per evidenziare i cambiamenti imposti dall’alto, segnalando allo stesso tempo l’esistenza di luoghi storici e preservando la memoria di una delle zone maggiormente interessate dalla trasformazione urbana. “Cancellare la memoria collettiva di un luogo e la sua storia permette di controllare più facilmente le persone, limitandone anche la capacità di organizzarsi e mobilitarsi per chiedere dei cambiamenti che soddisfino realmente i loro bisogni. Per questo pensiamo sia importante preservare la storia di Beyoğlu”, prosegue Bahar. 

Nel giugno 2019 Ekrem İmamoğlu è stato eletto sindaco di Istanbul, strappando la città al controllo dell’Akp, il partito del presidente Erdoğan. Attento alle questioni ambientali e sociali, İmamoğlu ha duramente criticato il faraonico progetto denominato “Istanbul canal” che dovrebbe creare un collegamento artificiale tra il Mar di Marmara e il Mar Nero per ridurre il traffico navale nel Bosforo © shutterstock.com

Mentre l’attivista parla, il suo collega Huseyincan fa scorrere sul computer le immagini di alcuni quartieri realizzati negli ultimi anni dall’agenzia statale Toki che dipende dal ministero dell’Ambiente e dell’urbanistica. Compito primario dell’ente statale è la costruzione di case popolari spesso destinate alle famiglie allontanate dai propri quartieri sulla base di progetti di riqualificazione che privilegiano la capitalizzazione dello spazio. “Grazie a una serie di leggi approvate dal 2005 in poi il governo è riuscito a mettere le mani su alcuni quartieri del centro da cui ha potuto trarre un profitto economico, costringendo i suoi abitanti, solitamente poveri, a trasferirsi altrove”. Secondo uno schema collaudato, il ministero dell’Ambiente e dell’urbanistica dichiara a rischio una zona su cui il governo vuole mettere le mani, mentre il Toki costruisce nuove abitazioni popolari in aree periferiche e prive non solo di servizi base, ma anche di spazi di socializzazione. “Molti quartieri non erano davvero a rischio, ma erano vulnerabili agli interessi del capitalismo”, sottolinea l’attivista.

Le contestazioni ai progetti di trasformazione imposti dall’alto non sono di certo mancate. Il caso più famoso è quello delle proteste del 2013 contro la realizzazione di un centro commerciale al posto del parco di Gezi, nel cuore di Istanbul, ma tante altre organizzazioni continuano a lottare per il diritto alla casa, riuscendo in alcuni casi anche a vincere. La stessa sconfitta dell’Akp alle elezioni amministrative del 2019 è in parte dipesa dal malcontento della popolazione verso le politiche urbanistiche promosse da Erdoğan, incuranti non solo dei bisogni reali dei cittadini ma anche della natura. Per contro, l’attuale sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, ha incentrato il suo programma anche sul rispetto dell’ambiente, aprendo le porte del suo ufficio alle organizzazioni cittadine. “Adesso abbiamo finalmente voce in capitolo, ma in soli tre anni è difficile cambiare il sistema -commenta Bahar con un sospiro-. Il governo sta cercando in tutti i modi di limitare il potere del sindaco. Vogliono persino modificare le leggi che stabiliscono le competenze delle municipalità per contrastare qualsiasi progetto che possa interferire con i loro piani”. 

Il presidente turco ha consolidato i legami con le grandi imprese di costruzione, diventate bacino elettorale decisivo per il successo del suo partito, l’Akp

Più che con i sindaci dell’opposizione, però, il governo deve fare i conti con il malcontento popolare per l’innalzamento dei costi degli affitti, una delle tante conseguenze negative delle politiche monetarie imposte dal presidente. “Gli affittuari sono diventati una nuova categoria vulnerabile. In molti si sono ritrovati a vivere in case piccole, insalubri, lontane dal posto di lavoro e dai servizi base. Per il presidente però la soluzione alla crisi degli affitti è l’acquisto di una casa”. A maggio, Erdogan ha annunciato lo stanziamento di incentivi per l’apertura di nuovi mutui, ma alle sue parole ha fatto seguito una nuova impennata dei prezzi delle abitazioni. La misura inoltre finirebbe con il favorire unicamente gli interessi dei grandi costruttori, anche loro in sofferenza a causa della crisi economica. 

Per gli attivisti del Centro però il vero problema non è solo il costo degli affitti. “Dobbiamo cambiare l’idea dell’abitare che abbiamo in Turchia. Il punto non è rendere meno care le abitazioni, ma essere certi che tutti possano vivere dignitosamente. Far capire alle persone che possono avere di meglio, però, non è facile”, aggiunge Huseyincan. 

Nonostante le difficoltà, gli attivisti del Centro non si arrendono. “I progetti dall’alto non funzionano più. Siamo stanchi di questo modello paternalistico, vogliamo decidere per noi stessi”, aggiunge con convinzione Bahar. Ma arrivare a una svolta non sarà semplice. “Sappiamo che questa lotta richiede molto tempo, anche perché la trasformazione urbana non è legata solo all’Akp ma ad un sistema economico basato sull’accumulazione di capitale”. Un sistema che Bahar e Huseyincan, insieme alla loro rete, stanno cercando di cambiare. A partire da Beyoğlu. 


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