Cultura e scienza / Attualità
L’orrore di Auschwitz nel Memoriale italiano. Che non è un monumento
Voluto dall’Associazione nazionale ex deportati, e curato tra gli altri dallo scrittore Primo Levi, il padiglione dopo quarant’anni è stato restaurato e ricollocato a Firenze. È un monito per l’Italia attraversata da pulsioni estreme
C’è un numero scritto sul dépliant: 178896. Ma è, soprattutto, una spina che punge. “Quando arrivavi in un Lager nazista”, spiega il pieghevole offerto a ogni visitatore del Memoriale trasferito da Auschwitz a Firenze, “venivi spogliato di tutto. Veniva cancellato anche il tuo nome, che era sostituito da un numero. Questo è il tuo”. Impossibile rimanere indifferenti. La memoria storica è una materia incandescente e lo si vede bene nell’Europa attuale, in crisi di identità e attraversata da pulsioni estreme. Lo si comprende anche ripercorrendo la storia del “Memoriale in onore degli italiani assassinati nei campi nazisti”, installato nel 1980 nel Blocco 21 del campo di sterminio trasformato in museo. Concepito e realizzato da un pool di artisti e intellettuali di grande statura -in testa l’architetto Lodovico Belgiojoso (reduce da Mauthausen), il compositore Luigi Nono, il pittore Pupino Samonà, lo scrittore Primo Levi- fu in qualche modo sfrattato perché considerato troppo artistico e poco esplicativo, quindi incompatibile con i nuovi indirizzi didattici del museo. Eravamo a cavallo fra gli anni Novanta e i Duemila e non mancarono le polemiche. Si disse che l’installazione italiana in realtà non piaceva alla destra nazionalista polacca per via dei marcati riferimenti al Partito comunista: le bandiere rosse, la falce e martello, il volto di Antonio Gramsci. Nessuno, in verità, affermò ufficialmente niente del genere (ma nemmeno smentì chi sollevò tale dubbio) e la richiesta di rinnovare il proprio padiglione fu rivolta anche ad altri Paesi. Ma di certo il Memoriale italiano propone una lettura tutt’altro che minimalista della deportazione verso i lager nazisti. Allarga anzi il quadro: non si limita agli anni della guerra e parte dal 1919 per raccontare l’avvento del fascismo come necessaria premessa del conflitto e delle deportazioni, che riguardarono in Italia i cittadini ebrei ma anche migliaia di oppositori politici, tanto che il Memoriale fu ideato e realizzato su iniziativa dell’Associazione nazionale degli ex deportati (ANED).
Il Memoriale ha rischiato di finire distrutto o confinato in un magazzino, ma è poi arrivato in riva all’Arno (a poca distanza dal fiume, in via Donato Giannotti 75/81, nel quartiere Gavinana) grazie all’impegno e al denaro di Regione Toscana e Comune di Firenze. Ora è un museo permanente. Potremmo definirlo un doppio museo: per la storia che racconta e per la storia che ha vissuto. È stato restaurato e ricollocato tale e quale all’interno di una palazzina-contenitore: sono a Firenze le stesse baracche, le stesse tele, la stessa fascia elicoidale che erano ad Auschwitz. È tutto cambiato invece l’esterno, sia sul piano materiale -non c’è il resto del Lager, che era visibile dalle finestre del Blocco 21-, sia sul piano politico e culturale: i fantasmi del passato si stanno riaffacciando nel cuore dell’Europa, risorgono i nazionalismi, conquistano voti e spazio mediatico gruppi di estrema destra che civettano (se non peggio) con fascismo e nazismo, sono in corso pericolose revisioni della storia.
L’idea di “una cultura della memoria condivisa”, nella sua apparente ragionevolezza, intende in realtà appiattire e normalizzare la lettura e rilettura del passato
Lo scorso 19 settembre il Parlamento europeo ha per esempio approvato un’inquietante risoluzione “sull’importanza della memoria per il futuro dell’Europa”. Proposta dalle destre ma votata anche da deputati dell’area progressista (compresi numerosi eletti nelle liste del nostro Pd), la risoluzione compie uno spericolato excursus storico, apertamente indirizzato verso un obiettivo caro alle destre nazionaliste soprattutto in Europa orientale: l’equiparazione fra nazismo e comunismo come forme di totalitarismo parimenti condannabili. La risoluzione è stata criticata e bocciata dagli storici più qualificati per le sue ardite ricostruzioni, a partire dall’idea che all’origine della Seconda guerra mondiale vi sia stato il Patto Molotov-Ribbentrop fra Urss e Germania del 1939. La tesi è a dire poco superficiale, ma rende trasparente l’intento dei proponenti: mettere al centro dell’attenzione e della riprovazione il sistema sovietico, seguire l’onda che ha spinto alcuni parlamenti nazionali a proibire l’utilizzo di simboli del comunismo. Altrettanto evidente l’effetto collaterale della ricostruzione: relativizzare le colpe della Germania nazista e soprattutto attenuare quelle dei nazionalismi prosperati in tutta Europa nella prima metà del Novecento. Nazionalismi che stanno rinascendo e dai quali è nata la spinta politica che ha portato alla risoluzione.
La storia, come sempre, è terreno di scontro e di battaglia. L’idea stessa di “una cultura della memoria condivisa”, evocata nella risoluzione votata a Strasburgo, nella sua apparente ragionevolezza, intende in realtà appiattire e normalizzare la lettura e rilettura del passato. La memoria storica è sempre selettiva e collegata ai cambiamenti del presente: al mutare dell’attualità, variano le domande con le quali si interroga il passato. La memoria storica non è un monumento né un esercizio di retorica, ma una chiave di lettura.
Sulla possibile equiparazione fra comunismo e nazismo molto si è scritto e discusso in passato. Primo Levi osservò che mentre è possibile immaginare un socialismo senza gulag, non può esistere un nazismo senza lager, ma forse va meditata un’altra sua frase, presa dal testo scritto per l’inaugurazione (aprile 1980) del Memoriale: “Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque Paese tu venga, tu non sei un estraneo”. Nessuno può sentirsi estraneo perché Auschwitz è figlio legittimo della storia europea. Di tutta la storia europea.
Il Memoriale è un percorso anche cromatico. Nei momenti più cupi, col fascismo trionfante, il nero prevale ma è screziato da macchie, a testimoniare i dissidenti, i resistenti
Il Memoriale oggi a Firenze è un tunnel, una spirale che avvolge il visitatore e lo spinge dentro la storia d’Italia. Disegni, colori e figure descrivono le lotte operaie, le violenze squadriste, la resistibile ascesa del fascismo e poi la guerra, la deportazione degli ebrei, la lotta dei partigiani e infine la liberazione. Le figure di Gramsci, Sturzo, Gobetti, Rosselli e alcuni altri rendono omaggio ai grandi dell’antifascismo; la musica di Nono martellante e angosciosa mette in allarme e induce alla meditazione. È un percorso anche cromatico: il rosso delle sinistre, il bianco dei cattolici, il nero dei fascisti, il giallo degli ebrei. Nei momenti più cupi, col fascismo trionfante, il nero prevale ma è screziato da una macchia di rosso, di bianco, a testimoniare un’apertura sempre possibile: i non sottomessi, i dissidenti, i resistenti come semi sotto la neve. Il Memoriale usa il linguaggio dell’arte e non è detto che sia meno efficace di strumenti più chiaramente didattici.
Alla fine del percorso una targa riporta una frase di Liliana Segre, 89 anni, sopravvissuta ad Auschwitz, il numero 75190 tatuato sull’avambraccio. “Salvarli dall’oblio -si legge- non significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze di chi ci circonda”. Liliana Segre è la senatrice a vita che commentò la propria nomina affermando di voler parlare anche per conto delle migliaia di persone “senza voce” morte nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. È la senatrice che ha dedicato il suo primo intervento politico alla difesa della minoranza rom. La sua proposta di istituire una Commissione straordinaria su razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio, la vera emergenza del nostro tempo, è stata approvata a fine ottobre (senza i voti della destra) dal Senato, ma lei è stata aggredita e minacciata a tal punto che il ministero ha deciso di assegnarle una scorta: una scelta obbligata che dà la misura del clima di odio e di violenza che inquina la vita pubblica. La colpa attribuita a Liliana Segre è chiara: non si è limitata a un ruolo di testimonianza, ha osato calare gli insegnamenti della storia nella realtà presente, ha cercato nel mondo di oggi gli oppressi e i discriminati, memore di quanto vissuto in prima persona. Ha ricordato a tutti quali esperienze abbiamo alle spalle. La memoria è un fatto politico e la lotta in corso è tanto feroce quanto decisiva per il presente e il futuro di tutti.
© riproduzione riservata