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Ambiente / Attualità

“Lupo uno”, il documentario che indaga prove di convivenza nelle comunità del Veneto

Il momento della cattura di un predatore nel documentario "Lupo uno" © Bruno Boz e Ivan Mazzon

Il lavoro di Bruno Boz e Ivan Mazzon, premiato al Trento Film Festival 2023, racconta soluzioni innovative per la mitigazione del conflitto con l’uomo, in particolare attraverso l’uso proattivo di radiocollari, nei territori di Vicenza, Belluno e Treviso. “Non tratta dell’ecologia del lupo ma di una sperimentazione tuttora in corso”

Prima di venir sterminato dall’uomo tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento, il lupo è sempre stato presente in Italia settentrionale, in quanto specie autoctona dell’arco alpino. La ricolonizzazione delle Alpi da parte dell’animale ha avuto inizio a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, in Piemonte, mentre nel 2012 è stato osservato il primo branco in Lessinia (territorio a cavallo tra il Veneto e la Provincia di Trento), nato dall’unione tra una lupa italiana e un maschio proveniente dalle Alpi Dinariche, in Slovenia.

Un’assenza così prolungata del predatore dal territorio del Veneto ha favorito lo sviluppo di forme di allevamento difficilmente conciliabili con la sua presenza: una situazione che ha generato astio e confusione tra gli abitanti del territorio, che spesso non sanno se essere contenti oppure intimoriti dal ritorno dell’animale. Con lo scopo di favorire una migliore convivenza tra i lupi e le comunità montane, i fotografi naturalisti e video-maker bellunesi Bruno Boz e Ivan Mazzon hanno realizzato un documentario dedicato a un progetto di ricerca dal titolo “Lupo uno. Gestione proattiva del lupo in Veneto“.

Questo lavoro, premiato al Trento Film Festival 2023 come miglior documentario di attualità, riprende le fasi di realizzazione di un progetto promosso dall’Università degli Studi di Sassari e dalla Regione Veneto sul massiccio del Monte Grappa, che ha sperimentato soluzioni innovative per la mitigazione del conflitto con l’uomo, in particolare attraverso l’uso proattivo di radiocollari, soprattutto tra le province di Vicenza, Belluno e Treviso. In particolare, il film mostra le tecniche di monitoraggio di una famiglia di lupi, ma anche la vita e le attività lavorative dei residenti in questo distretto montano.

“’Lupo uno’ è la denominazione del laccio attraverso il quale è stato catturato l’animale protagonista del documentario -racconta ad Altreconomia Ivan Mazzon, uno dei due registi-. La cattura era finalizzata all’applicazione di un radiocollare Gps, che consentirà di raccogliere dati molto importanti sui suoi spostamenti, ora in fase di analisi da parte dei ricercatori di Sassari”. Fotografo naturalista e videomaker, Mazzon è specializzato nell’utilizzo di foto e video-trappole ad alta definizione per la ripresa di animali elusivi e documenta progetti di conservazione della fauna selvatica. “Nel film si parla di un’operazione di cattura di un lupo sul massiccio del Grappa, dove stiamo seguendo un branco che si espande su ben tre province”, continua.

“Abbiamo avuto la fortuna di riprendere passo dopo passo la squadra di ricerca: sia durante le azioni più tecniche durante l’applicazione del radiocollare ai lupi, sia nelle relazioni quotidiane della fauna selvatica con i pastori. Attenzione però -avvisa il regista – questo non è un documentario sull’ecologia del lupo, ma un lavoro di ripresa su una sperimentazione tuttora in corso. Il Dipartimento di veterinaria dell’Università di Sassari, in cui operano esperti che hanno maturato una grande esperienza di studi specialmente in Italia centrale, sta lavorando da molti anni sulla ricerca di tecniche e metodologie per facilitare la convivenza dell’uomo con il lupo”.

L’utilizzo di cani da guardiania appositamente addestrati può essere un efficace deterrente contro le predazioni dei lupi ai danni del bestiame © Bruno Boz e Ivan Mazzon

Il documentario mette in evidenza come combinare varie soluzioni di monitoraggio a diversi sistemi d’allerta (dal radiocollare ai dissuasori acustici che scattano appena il predatore si avvicina al gregge) può essere di grande aiuto per impedire la predazione dei capi allevati. Inoltre, questo approccio punta anche a innescare una riflessione differente tra coloro che vedono nel ritorno del lupo un problema.

“Aver partecipato al Trento Film Festival è stata sicuramente una grande soddisfazione. Ora però vorremmo iniziare a proiettare il film nel nostro territorio, in Valbelluna, per condividere questo progetto con la popolazione locale e mostrare che ci si sta interessando alle difficoltà in corso legate al ritorno del predatore, tramite appositi studi e ricerche”. Un documentario quindi per informare, ma anche per offrire spunti di prevenzione e indicare buone pratiche che possono essere esportati in altri territori. Il Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi, ad esempio, ha da poco siglato un accordo con l’Università degli Studi di Sassari per monitorare la presenza del lupo all’interno dei suoi confini e lo stesso hanno fatto due importanti aree protette della Toscana.

Duccio Berzi, tecnico faunistico che si occupa di conflittualità tra i lupi e le attività umane dai primi anni Novanta, ha partecipato come coordinatore allo studio documentato in “Lupo uno” e spiega perché è importante da un punto di vista comunicativo e informativo aver prodotto un’opera sulla convivenza uomo-lupo. “Nel film si descrive un progetto di telemetria proattiva (metodo che permette di osservare e raccogliere informazioni via satellite, ndr), utilizzando un linguaggio semplice e divulgativo, analizzando la situazione di questo animale, le criticità, le possibili implicazioni di un progetto del genere e lasciando il giusto spazio a riprese mai effettuate in Italia. Dal 2019 abbiamo catturato otto lupi sulle Alpi e sulle Prealpi venete e a questi si aggiungono tre animali rinvenuti feriti che sono stati liberati dopo essere stati curati e aver applicato loro il radiocollare. A oggi questa è l’unica esperienza di telemetria satellitare sistematica in atto sulle Alpi, che ci permette di raccogliere un’infinità di dati sulla specie sia di carattere biologico (come dimensione del loro territorio, entità degli spostamenti, uso dell’habitat, tasso di predazione, selezione delle prede) ma anche sulla relazione con le attività umane, come frequentazione delle aziende zootecniche e relazione con le opere di prevenzione”.

La telemetria satellitare sta consentendo quindi di colmare in buona parte le lacune informative sulla specie, per le quali mancavano informazioni basilari di carattere ecologico e biologico. Inoltre, i radiocollari consentono di sperimentare nuovi sistemi di prevenzione come i sensori di prossimità e i virtual fences, dei recinti virtuali disegnati su una mappa digitale che mandano degli avvisi sonori agli operatori appena il collare del lupo entra nell’area sensibile.

© Bruno Boz e Ivan Mazzon

Quella del lupo è ormai da anni una presenza stabile in Veneto e le ricerche portate avanti da Berzi stanno permettendo di indagare il ruolo di questo mammifero sull’ecosistema alpino, studiando la relazione tra prede e predatore, confermando il fatto che il lupo è in grado di fare un’ottima selezione dei capi predati, scegliendo ad esempio ungulati selvatici malati o anziani. “Tuttavia, se consideriamo anche l’uomo e le sue attività rurali come componente dell’ecosistema montano, non possiamo non rilevare una forte conflittualità legata al fatto che le attività pastorali si sono evolute negli ultimi decenni senza incorporare la presenza di questo abile predatore, quindi senza presidi e strategie di prevenzione”, chiarisce il tecnico.

Essendo un animale che si colloca ai vertici della catena alimentare, il lupo ha un’importanza strategica nella regolazione dell’equilibrio ecologico ma il suo ritorno in Veneto sta destando paura e inquietudini tra gli abitanti delle zone montane, spesso dovute a informazioni poco corrette e purtroppo strumentalizzate. “Il timore è sicuramente comprensibile -spiega ancora Duccio Berzi- sia per la scarsa conoscenza di questo nuovo ‘coinquilino’, sia per il fatto che alcuni timori non sono correlati a una valutazione statistica del rischio, ma si basano puramente sull’emotività. La probabilità di essere attaccati da un lupo è oggettivamente molto bassa, ma magari ci fa più paura camminare nel bosco che attraversare la strada con un intenso traffico, dove il pericolo è enormemente più alto. In gergo psicologico questo scherzo della mente si chiama sovraponderazione delle immagini vivide. È compito degli esperti, dei media e dei comunicatori cercare di riavvicinare la paura derivante dal rischio percepito al rischio reale. Mentre spetta alle amministrazioni decidere quali politiche mettere in atto per ricucire le tensioni sociali create e permettere da una parte la conservazione della specie e dall’altra il mantenimento delle attività zootecniche tradizionali, consapevoli del quadro nazionale di riferimento e dell’evoluzione della realtà socioeconomica della montagna”.

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