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Ambiente / Intervista

Carlos Moreno. Una soluzione per la vita urbana

Carlos Moreno, direttore scientifico del laboratorio di ricerca Entrepreneurship territory innovation presso la IAE Paris Sorbonne Business School (Università Paris 1 Panthéon Sorbonne) e professore all’Accademia internazionale di Architettura © Thomas Baltes

“La città dei 15 minuti” promuove un’idea di policentrismo a basso impatto, per garantire l’accesso diffuso ai servizi essenziali ripensando la pianificazione urbanistica. Un processo che il cambiamento climatico impone

Tratto da Altreconomia 270 — Maggio 2024

Tra il 2012 e il 2022, oltre 300 milioni di persone hanno abbandonato la vita rurale per trasferirsi nelle città, da quelle piccole e medie alle metropoli e megalopoli. Nel 2022, il 56,9% della popolazione globale, che ha ormai superato quota otto miliardi, è urbana. Per questo, anche se rappresentano un “attentato” alla qualità delle risorse naturali, consumano oltre i tre quarti dell’energia e sono un serio problema per quanto riguarda la concentrazione di emissioni climalteranti e di inquinanti nell’aria, “le città sono il cuore della soluzione”, come scrive Carlos Moreno nel libro “La città dei 15 minuti”, pubblicato in Italia da add editore.

È in questo testo che Moreno, direttore scientifico del laboratorio di ricerca “Entrepreneurship territory innovation” presso la Iae Paris Sorbonne Business School (Università Paris 1 Panthéon Sorbonne) e professore all’Accademia internazionale di Architettura, descrive le basi teoriche di un nuovo paradigma, capace di costruire città viventi e di riconoscere un nuovo diritto di viverle, allargando l’idea di diritto alla città, che ha portato in passato a rivendicare una (non affatto scontata) dignità abitativa. Necessaria ma insufficiente.

Che cosa manca per cambiare il paradigma?
CM Per offrire soluzioni che siano allo stesso tempo realizzabili e durevoli sono necessari almeno tre elementi. Il primo è relativo al ruolo di chi è al governo, sia un sindaco o il presidente di una città metropolitana, che deve saper offrire una visione “pionieristica” capace di uscire dalla logica del breve periodo, che è la cosa più difficile per chi amministra ed è abituato a rispondere a bisogni immediati. Concetti come decentralizzazione e policentrismo, per essere applicati, hanno però bisogno di tempo. Da qui l’esigenza di seguire logiche di medio periodo, per poter sviluppare piani per un’organizzazione territoriale con carattere strutturale e strategico.

Si tratta, cioè, di ridefinire il modo di vivere le città, aspetto che evidenzia, ed è il secondo elemento chiave, l’importanza che i cittadini siano coscienti delle sfide che abbiamo di fronte, in particolare quelle legate al cambiamento climatico, perché accettino la necessità di cambiare un modello di vita urbana che ha quasi un secolo e oggi non è più valido. Parlo, in particolare, del modello fondato sulle auto private alimentate da combustibili fossili, usate per spostamenti che spesso non arrivano ai sei chilometri. Limitare la presenza e l’uso delle auto non significa togliere libertà individuali ma offrire un miglior modo di usare lo spazio pubblico. Il terzo punto è invitare i settori economici a trasformare il proprio modello di business, uscendo da una segmentazione delle attività concentrate in singoli quartieri verso un modello più decentralizzato.

Che consiglio darebbe a un amministratore che desideri “cambiare le città, modificando il nostro modo di viverle”?
CM Deve sentire la responsabilità di preservare o incrementare la qualità di vita, che è basata sul bene comune, un concetto che io calo nella definizione che ne ha dato Elinor Ostrom (la prima donna a ricevere il Nobel per l’Economia nel 2009, ndr), e comprende tutte le risorse materiali e immateriali necessarie per preservare il benessere generale. Questo all’interno di un’economia di mercato significa identificare un itinerario, ridefinendo il concetto di qualità di vita e garantire una maggiore accessibilità ai servizi locali. Ciò può permettere ai cittadini di “cambiare il chip”, perché ormai da novant’anni sono abituati a un modello insostenibile.

“La città ideale non esiste”, spiega nel libro. Ciò che descrive è un percorso di trasformazione. Che ruolo hanno in questo processo di adattamento gli elementi naturali?
CM Le città hanno sempre vissuto in una osmosi con le risorse naturali. La qualità di vita dipende da aria, acqua, suolo e vegetazione, che sono elementi indispensabili. Da un secolo, da quando le auto sono diventate popolari, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, con la costruzione delle strade e delle autostrade, di quartieri dedicati all’impresa, si è rotto l’equilibrio tra questi elementi naturali e le nostre città. Le nuove distanze urbane percorse in auto portano alla produzione di inquinamento permanente, ossidi di azoto e particolato fine, con la contaminazione dell’aria, l’occupazione del suolo l’interruzione di processi naturali e la possibilità offerta degli ambienti naturali di assorbire le emissioni. La perdita di questa armonia si è tradotta in un’emergenza: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) l’80% delle metropoli ha aria contaminata e l’impermeabilizzazione dei suoli fa sì che le piogge più intense non siano assorbite. Accettando questa rottura tra la coerenza della natura e l’ambito urbano, abbiamo messo in pericolo la nostra salute, con malattie sempre più diffuse in città che hanno origine da questi elementi di inquinamento.

“È importante che i cittadini siano coscienti delle sfide legate alla crisi climatica e accettino di cambiare un modello di vita urbana che ha quasi un secolo e oggi non è più valido”

Ecco che dal diritto alla città si passa al diritto di vivere nelle città.
CM Facciamo uno zoom su ciò che significa un modello di vita urbano. Le città in cinquanta anni hanno avuto uno sviluppo enorme, che inizialmente ha generato un movimento legato al problema della casa, cui le città risposero producendone in massa, anche legate all’edilizia residenziale pubblica, realizzate sempre più in periferie, costruite in cemento e lontane dai servizi pubblici essenziali. Questo ha creato una forte dipendenza dall’auto e una segregazione sociale importante nei quartieri popolari. Qualcosa che era indispensabile, è diventata un’arma a doppio taglio: perché una casa senza accesso alle funzioni sociali urbane fondamentali -vivere, lavorare, rifornirsi, curarsi, imparare e divertirsi- produce problemi, all’interno di zone di dis-integrazione. Credevamo bastasse una casa, ma non è così. È per questo che serve un nuovo modello policentrico, che è il diritto di vivere in città e avere una buona qualità di vita, senza limitazioni. Di questo si parlerà a novembre al World urban forum promosso dall’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di insediamenti umani e intitolato “Tutto inizia a casa. Azioni locali per città e comunità sostenibili”. La casa non è solo un tetto sulla testa.

Nel mondo, 2,8 miliardi di persone hanno un alloggio inadeguato. Di questi, quasi 1,1 miliardi risiedono in baraccopoli e insediamenti informali. Le Nazioni Unite stimano poi che 318 milioni di persone siano senza casa. Però, spiega il paper introduttivo del World urban forum, in programma a Il Cairo in Egitto dal 4 all’8 novembre 2024, “le soluzioni all’inadeguatezza degli alloggi non devono esacerbare altri problemi urbani come il traffico, la scarsità d’acqua, la disuguaglianza, le emissioni climalteranti” © Tommaso Scalera – Unsplash

E diventa fondamentale progettare la vita urbana, non solo le città con i loro edifici: che cosa significa “la città dei 15 minuti”?
CM Dobbiamo uscire da un modello insostenibile. Non si può continuare a costruire centri commerciali in periferia che disintegrano le economie locali, né parcheggi che attraggono grandi quantità di auto. Questa è la sfida, prima che sia troppo tardi. Nell’ottobre 2023 a città di Acapulco, in Messico, lungo la costa pacifica nello Stato del Guerrero, è stata distrutta in poche ore dall’uragano Otis, che in breve tempo è passato da tempesta tropicale a pericolosa tempesta di categoria cinque. Il costo della ricostruzione è pari a 3,4 miliardi di dollari. Oggi ciò che è successo ad Acapulco può accadere ovunque. E in Europa stiamo producendo un’intensificazione degli effetti del cambiamento climatico, continuando a scegliere l’impermeabilizzazione permanente del suolo.

Nella sua riflessione lei inserisce anche l’invito a concentrarsi sulle relazioni tra città e campagna. Perché è così importante?
CM Negli ultimi settant’anni abbiamo accettato anche di veder disintegrato il modello economico che ci legava alla terra, essenziale per la catena alimentare, indispensabile per vivere bene. Il modello economico dei centri commerciali, che sono uno stile di vita e non semplicemente negozi, ha invece bisogno di centrali d’acquisto che hanno il potere di “strangolare” il piccolo produttore. Una delle questioni che evoco nel mio libro è così la necessaria rigenerazione del “vincolo” che esiste tra la produzione nelle campagne, e il consumo, in città, attraverso modelli di filiera corta, che prevedono la nascita di cooperative agricole e mercati all’aria aperta all’interno di spazi multifunzionali, come potrebbero essere le stazioni dei treni. È un modello che in Francia è fondato sulle Associations pour le maintien d’une agriculture paysanne (Amap) e valorizza chi fa un uso non intensivo delle superfici agricole, senza usare in modo massiccio prodotti fertilizzanti, un pericolo per la salute. Tutto questo si collega alla salute urbana, perché il consumo di cibo di scarsa qualità ottenuto grazie all’uso di pesticidi ci intossica.

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