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Ambiente / Opinioni

Contro quella sproporzione “normale” che si mangia montagne, suoli e cittadinanza

© Visax - Unsplash

Dal sacco delle cave di marmo delle Apuane alla colonizzazione energetica di mille ettari di suolo in Sardegna, venduti a un’azienda cinese. Ultima rappresentazione “viva e bruciante del neoliberismo e della sua ferocia speculativa a danno del territorio”. Per resistere le comunità devono lavorare a monte. L’analisi di Paolo Pileri

Due notizie apparentemente diverse sono invece assai simili. La prima è quella dell’inchiesta giornalistica di Report sullo sfruttamento delle cave di marmo delle Apuane che ha sollevato un polverone (Altreconomia se ne era occupata già tempo fa). La seconda è quella diffusa da UnioneSarda.it riguardante la vendita di ben mille ettari di suolo dell’isola a un’azienda cinese per farci il più grande impianto fotovoltaico d’Europa (l’ennesima colonizzazione energetica).

Che cosa hanno in comune le due notizie? Il suolo e il paesaggio rubato all’ambiente e alle comunità locali? Certamente sì, ma non solo. La speculazione finanziaria dietro tutto questo? Certamente sì, ma non solo. La finzione della sostenibilità o la pretestuosa equazione per la quale ciò che è rinnovabile è automaticamente sostenibile (falso)? Certamente sì, ma non solo.

L’ipocrita teatrino dei politici che, solo dopo il clamore suscitato da Report, si sono fatti vivi in carne e ossa mettendo in scena improbabili indignazioni e stupori per quel che accade nelle cave (ma non sono loro e le istituzioni che amministrano a dare le concessioni?)? Oppure il silenzio ancora eccessivo e imbarazzante di troppi politici sardi che ricorda l’astuta tattica di chi costruisce ritardi burocratici ad hoc così che le cose poi diventano irrecuperabili? Certamente sì, ma non solo. La negazione di sovranità (parola che piace più tradire che pronunciare) delle comunità locali, scippate delle risorse naturali per ingrassare le tasche di pochi finanzieri disinteressati alle sorti delle genti locali e che poco o nulla restituiscono al territorio? Certamente sì, ma non solo. Il fatto che i marmi si cavano dalla terra toscana per arredare i bagni di qualche magnate del petrolio chissà dove o che l’energia solare su suoli sardi finisca nei portafogli cinesi? Certamente sì, ma non solo.

E allora che cosa accomuna le due notizie? La loro sproporzione. Si, è la sproporzione a renderle così simili e odiose facendone una rappresentazione viva e bruciante del neoliberismo e della sua enorme ferocia artificializzatrice e speculativa a danno del territorio. “È quando l’insediamento si espande e inizia a coprire ettari; è quando il governo del territorio si fa così capillare da escludere sistematicamente tutte le specie che sono riconducibili alla utilità umana; è con l’imporsi di questa forma totalitaria dell’essere al mondo, che la presenza umana diventa artificiale”, come hanno spiegato Francesco Boer e Andrea Pilloni (2023). La sproporzione è pervasiva ed è ciò che artificializza tutto senza pietà, spesso legittimata da norme ingiuste o assenti, sostenute in modo palese o velato da una politica compiacente fin quando ci scappa il morto o quando il Report di turno scoperchia il caso.

Eppure, fino a poco prima della puntata, la sproporzione con cui intere montagne sparivano a morsi sempre più rapidi e voraci era “normale”, proprio come ora è di nuovo “normale” vedere un’isola letteralmente colonizzata oltre ogni ragionevole misura da pale e pannelli, i nuovi strumenti di espropriazione della natura e delle genti. La sproporzione tra intenzione e atto è ciò che rende indigeribile sia le cave di marmo sia il futuro parco fotovoltaico cinese e i relativi annessi e connessi. La sproporzione dell’indifferenza di chi governa senza prendere una posizione netta e forte che cambia per davvero il corso delle cose e ferma le rapine. La sproporzione con la quale le tecnologie (estrattive entrambe) si propongono come salvifiche a priori quando invece sono un moltiplicatore di impatti ambientali. Lo squilibrio quantitativo è simbolicamente ciò che accomuna questi due casi. Ma è anche, a pensarci bene, la cifra con la quale l’immarcescibile modello neoliberista continua a trasfigurare i luoghi dove viviamo, spaesandoci.

Sproporzionati sono anche i capannoni della logistica e del commercio online che in meno di dieci anni hanno letteralmente stravolto i paesaggi: e non capiamo più noi chi siamo. Sproporzionati sono i piccoli e grandi palazzi multipiano che sorgono a Milano o a Bologna al posto di piccole officine o edifici dentro i cortili, mandando all’aria le viste di chi da decenni viveva lì attorno. Sproporzionato è il ponte sullo Stretto di Messina, il progetto di arretramento della linea ferroviaria nel ponente ligure, l’alta velocità in Irpinia, la mega-ciclabile del Lago di Garda, la trasformazione del parco del Meisino a Torino in cittadella dello sport, i grattacieli a Milano, Torino e dove vogliono farli, i progetti di interporti ad Alessandria, Novara, Parma e chissà dove ancora, l’ampliamento della tangenziale di Bologna, il porto fluviale a Monticelli di Ongina sul Po, il Tyirrhenian link, ma anche l’assurda area parcheggio fuori dalla stazione di alta velocità di Reggio Emilia Mediopadana, le mega rotonde viarie e così via.

E poi ci sono tutte le piccole sproporzioni urbanistiche che si depositano nei piccoli e medi Comuni: in termini assoluti possono sembrare poca cosa, ma rispetto alla trama sottile di quei centri diventano un fuori scala che rende stranieri tutti gli abitanti. L’elenco delle sproporzioni che gettano artificializzazione e spaesamento nei nostri occhi è lunghissimo e tristissimo. Ma è proprio questa la cifra con la quale ci stanno mangiando l’orizzonte e “de-cittadinizzandoci”. Oggi più di ieri. È un processo che ha preso la rincorsa negli anni Settanta, si è irrobustito negli anni Novanta abbruttendo il Paese e rubando terre che erano di tutti, ma ora sta letteralmente superando qualsiasi previsione e qualsiasi soglia di rispetto. La sproporzione è oggi quel che accomuna gran parte delle opere pubbliche e private che consumano suolo e artificializzano i territori rendendoli irriconoscibili con una velocità alienante, mai conosciuta prima.

Come se non bastasse, tutto questo viene perpetrato con maggior furbizia di ieri, usando pretestuosamente la sostenibilità e la tecnologia come grimaldelli e bersagliando preferibilmente le comunità che abitano le terre più fragili -dalla Val Susa all’entroterra pugliese, campano e sardo- contando forse sul fatto che, prese dalla preoccupazione di sopravvivere nella dura quotidianità o sprovviste delle capacità culturali ed economiche, non sono in grado di opporsi o tardano a capire cosa sta accadendo o sono più facili da abbagliare. È sempre più urgente una reazione che, prima dei cortei e delle manifestazioni, prepari le comunità a diventare epistemiche, ovvero sempre più capaci di anticipare le loro prese di posizione basandole su consapevolezze e conoscenze sempre più solide, evitando di scivolare nella sola contrapposizione ideologica, pur ragionevole ma troppo facilmente criticabile dagli speculatori e dai loro compiacenti politici.

Bisogna anticipare le reazioni, evitando che quelle sproporzioni inizino a essere pensate, facendo capire che i territori non sono né riserve di caccia per speculatori dove trovare un ambiente dal ventre molle che possono bucare come gli pare e piace, nè abitati da genti che sono muti codici fiscali da mettere su una lista di espropri o che possono spostare qua e là come gli va. In un contesto dove le forze politiche sono perse nei loro giochi elettorali, disinteressate e distanti dalla concretezza dell’intreccio tra questioni ecologiche e sociali, dove non vedono queste sproporzioni e non sono capaci di metterne assieme due solo perché geograficamente e tipologicamente distanti, è più che mai urgente riannodare e irrobustire le alleanze tra saperi scientifici e azioni locali per superare la mentalità incentrata sull’interesse privato, sul solo profitto finanziario che può sventrare qualsiasi cosa.

L’impegno civile oggi deve lavorare molto di più a monte e non solo a valle, così da prevenire la violazione di territori e comunità, come suggerisce Adriano Zamperini nel suo “Violenza invisibile”. Stare a valle e opporsi agli scempi è sacrosanto, ma non più sufficiente. È urgente andare a monte per disegnare le condizioni culturali per cui certe cose, certe sproporzioni, certe predazioni di suoli e paesaggi, certe prevaricazioni alle popolazioni locali spariscano per sempre e si impari a immaginare alternative condivise, proporzionate e super rispettose degli ecosistemi. Un grande lavoro culturale ed ecologico, necessario e urgente. Non può che partire da chi, in questo momento, riesce a vedere quelle sproporzioni e quelle prevaricazioni vuoi perché ci è accanto, vuoi perché ne conosce gli effetti teorici. Occorrono nuove alleanze di impegno civile, basate sulla consapevolezza: teoria e azione insieme. Si può fare, si sta già in parte facendo.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)

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