Diritti / Intervista
Un accordo contro le persone: i primi cinque anni del patto con la Turchia dei governi europei
Risale al marzo 2016 la “dichiarazione” tra Turchia e Stati dell’Unione europea per bloccare migranti e rifugiati. “Uno di quei casi in cui la volontà politica di procedere in una direzione ha prevalso sulla tutela dei diritti”, spiega la professoressa Chiara Favilli. Ecco com’è andata
Sono passati cinque anni dalla firma dell’impropriamente detto “accordo” tra Turchia e Unione europea. Una dichiarazione che, secondo Chiara Favilli, professoressa di Diritto dell’Unione europea all’Università di Firenze, si contraddistingue per essere diventata la “cornice giuridica” per il contenimento dei flussi migratori attraverso la “manipolazione di termini giuridici utilizzati per fini politici”. L’impegno nel contrasto dell’immigrazione “irregolare” è la veste pulita con cui le autorità europee hanno limitato e limitano tuttora la mobilità di migranti e rifugiati e la loro possibilità di raggiungere gli Stati membri: l’accordo, per questo motivo, continua a essere una colonna portante della governance europea in materia di immigrazione. Anche perché la dichiarazione prevede, a fronte di un finanziamento di circa sei miliardi di euro alla Turchia, il cosiddetto scambio 1:1. Si tratta di un meccanismo in cui per ogni migrante definito “irregolare” che raggiunge la Grecia e viene respinto, un altro viene riammesso in un Paese europeo. In realtà, il numero di ricollocamenti resta contenuto: nel 2019, a fronte di una presenza di oltre 3,6 milioni di cittadini siriani presenti in Turchia, dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) alla mano, le persone siriane ricollocate sono state 8.235 e solo il 77% di esse in Stati europei.
Professoressa, la dichiarazione venne presentata come una misura “temporanea e straordinaria per porre fine alle sofferenze umane e ristabilire l’ordine pubblico”. Si può definire tale un accordo che perdura da cinque anni?
CF Sicuramente il lessico della diplomazia europea applicato alle politiche in materia di immigrazione spesso non corrisponde alla sostanza delle cose. Vale per la temporaneità, per la misura straordinaria ma anche per la qualificazione di questa cooperazione come “dichiarazione” che camuffa la sostanza. Quando venne firmata la dichiarazione era già chiaro che la soluzione prospettata era di medio-lungo periodo. Si ottenne la cooperazione della Turchia per l’accoglienza dei cittadini siriani che oggi sono ancora lì: un accordo di questo genere perdura fino a quando persiste una politica di limitazione degli ingressi legali nell’Unione europea.
A proposito di lessico. La nozione di “Paese terzo sicuro” riferito alla Turchia è un elemento centrale della dichiarazione perché permette il respingimento dei richiedenti asilo. La deriva autoritaria del governo di Ankara scalfisce questa definizione?
CF No. La Turchia resta un Paese terzo sicuro anche se non è considerabile un Paese di origine sicura. Questo significa che un cittadino turco può chiedere asilo in uno degli Stati europei e ottenere, salvo la verifica della situazione individuale, una forma di protezione mentre un cittadino siriano richiedente asilo può essere rimandato in Turchia. Tutto si gioca sul termine “terzo”. L’uso disinvolto del lessico ha effetti giuridici estremamente significativi e pregnanti. Con la nozione di Paese sicuro, nel diritto dell’immigrazione, si è raggiunto il massimo della pratica di manipolazione dei termini. Come giuristi ci si sente impotenti di fronte a un utilizzo di nozioni che hanno un preciso significato tecnico ma che dimostrano la loro debolezza nel momento in cui vengono utilizzate strumentalmente per raggiungere fini quali, in questo caso, il contenimento dei flussi.
Nel febbraio 2020, a fronte delle minacce del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan di riaprire i confini, la tensione è cresciuta. Quali sono secondo lei le prospettive dell’accordo? Verrà rinnovato?
CF Lo scenario geopolitico è molto più complesso e potrebbero esserci ulteriori dinamiche che possono influenzare il rinnovo dell’accordo. Oggi i migranti, purtroppo, sono uno dei tanti tasselli di una complessa dinamica tra Unione europea, singoli governi e Turchia. Lo scenario potrebbe cambiare al variare di uno di questi. Allo stato attuale ritengo però che sarà rinnovato l’accordo. La politica di Erdoğan con l’Unione europea attraverso i migranti mi ricorda molto quella che per tanti ha perseguito Gheddafi quando era alla guida della Libia. Anche allora assistevamo a un rilancio continuo dei negoziati per ottenere finanziamenti, benefici di vario genere che via via sono stati concessi al capo del governo libico: gli sbarchi aumentavano a seconda dell’andamento dei negoziati. Lo stesso succede con la Turchia. In questo senso, se non cambia nulla nella volontà dei governi dell’Unione circa l’ammissione dei cittadini dei Paesi terzi, nello specifico siriani, non ci sono alternative.
La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen che definisce la Grecia come “scudo dell’Europa”, il supporto di Frontex nei respingimenti effettuati dalla guardia costiera greca. La cronaca sembra suggerire che non ci sia un cambiamento di direzione dell’Unione.
CF Sì, siamo distanti. Anche il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo (presentato dalla Commissione europea il 23 settembre 2020, ndr) riproduce lo stesso schema e fa sorridere che si sottolinei la “nuova” politica di cooperazione verso i Paesi terzi quando è dal 2016, in realtà, che è stata strutturata la cornice giuridica per contenere i flussi attraverso un intervento nei Paesi d’origine e di transito. D’altronde, una politica che si fonda sul tendenziale divieto di nuovi ingressi di cittadini terzi in modo legale evidentemente è corredata da una politica di contenimento delle partenze. Non ci sono alternative.
La dichiarazione, dissero i promotori, nasceva dalla grave crisi umanitaria in Grecia. L’accordo ha raggiunto i suoi obiettivi?
CF L’obiettivo di superare la situazione drammatica nelle isole greche non è stato raggiunto in alcun modo. Probabilmente, bisogna essere realisti, non era questo l’obiettivo principale quanto quello di diminuire gli sbarchi. L’accordo prevedeva specificamente il rimpatrio dei richiedenti protezione internazionale la cui domanda fosse stata respinta: questa era la modalità con cui si pensava di alleggerire la situazione greca. Meno arrivi e più rimpatri. Certamente l’idea di alleggerire la pressione nei centri attraverso ricollocamenti ha avuto risultati pessimi. È uno strumento che dobbiamo collocare nell’obiettivo che perseguiva. Ridurre gli arrivi. Riconoscendo anche alle persone accolte in Turchia migliori condizioni rispetto a quelle del 2016 quando non c’era la cooperazione. È complesso andare ad analizzare la situazione attuale dei cittadini siriani che oggi sono accolti in Turchia.
È ancora possibile vanificare la validità della dichiarazione tramite vie giudiziarie?
CF Con la Corte di giustizia dell’Unione europea la partita è chiusa perché questa ha ritenuto, in più occasioni, che non ci sia un accordo vincolante ma piuttosto un’intesa che vede impegnati maggiormente i singoli governi piuttosto che l’Unione europea. Ritorna l’importanza del lessico e il paradosso di un accordo che viene definito dichiarazione e sul piano materiale svanisce impedendo che sia contestato sul piano giuridico. È uno di quei casi in cui la volontà politica di procedere in una direzione prevale sulla tutela dei diritti, sulla forma giuridica.
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