Diritti / Intervista
“The show must go on”: le storie, già dimenticate, di chi ha reso possibili i Mondiali in Qatar
Una mostra del giornalista e fotografo Valerio Nicolosi dà spazio ai lavoratori migranti nel Paese. A campionati finiti, il rischio è che ci sia ancora meno attenzione sulle loro condizioni. “Sarà sempre più difficile richiamarla. Basta guardare a come si riporta il modo in cui l’Arabia Saudita sta cercando di ottenere i Mondiali 2030”
Tra gli stadi avveniristici a cui siamo stati abituati durante i recenti campionati di calcio ce n’è uno di cui media e tv hanno parlato poco. È l’Asian town cricket stadium nella periferia di Doha, lontano dai riflettori, ma che ha visto ugualmente un’alta affluenza di persone tra novembre e dicembre. È lì che è stata allestita dalle autorità qatariote l’industrial fan zone, gratuita e aperta a tutti, ma che in pratica è stata frequentata da coloro che hanno costruito gli stadi dove si è svolto Qatar 2022, e che per le loro condizioni non potevano permettersi il costo del biglietto. Si tratta dei lavoratori stranieri delle cui condizioni precarie e diritti negati Altreconomia si è occupata nei mesi scorsi. Valerio Nicolosi, che da anni si occupa di persone migranti in diverse zone del mondo, è stato uno dei pochi giornalisti italiani ad aver avuto accesso ai cantieri degli stadi durante la loro costruzione. Ha riportato i volti degli operai nella mostra fotografica “The show must go on”, in scena a Roma dal 17 al 27 novembre scorso al Circolo Arci Brancaleone di Roma. Lo abbiamo incontrato per capire che cosa ha visto in Qatar.
Valerio da dove nasce la mostra? Quali i collegamenti con i tuoi reportage precedenti?
VN Sono andato in Qatar nel febbraio dell’anno scorso insieme al sindacato internazionale dell’edilizia (Bwi), che da anni è al fianco dei lavoratori migranti a Doha con il fine di migliorare le loro condizioni. Ho accettato questa collaborazione fotografica spinto dalla curiosità di conoscere una situazione di cui allora si parlava poco e questa occasione mi dava la possibilità di denunciarla in un altro modo, cioè riportando i volti dei lavoratori migranti. Nella settimana trascorsa a Doha ho visitato il cantiere dello stadio Lusail e il villaggio operaio adiacente, dove vivevano circa 500 lavoratori che operavano 24 ore su 24 organizzati in turni. È un contesto che mi ha ricordato quanto ho osservato a Rosarno, dove c’è una situazione di sfruttamento di persone che vivono in ghetti. A Doha li chiamiamo “villaggi operai”, perché si tratta di ghetti costruiti dallo Stato, ma la tendopoli di San Ferdinando non è molto diversa. Aggiungerei, inoltre, che mentre delle condizioni dei migranti in Qatar se ne è parlato in minima parte negli ultimi mesi, continuiamo ad ignorare il modo in cui vivono i lavoratori stranieri a Rosarno e in altre parti di Italia.
Che realtà hai trovato in Qatar?
VN Bisogna partire dal fatto che il Qatar è governato da un emirato, ovvero una monarchia assoluta. Riconoscere questo permette di regolarsi su come ci si possa muovere in Qatar, da “esterno”. Ad esempio, per poter fare queste foto sono stato sempre accompagnato da funzionari governativi, che si assicuravano che non mi intrattenessi più del consentito con gli operai. Il vincolo al mio lavoro infatti era quello di non fare domande, ma solo fotografie. Da questa premessa deriva la realtà in cui vivono i lavoratori stranieri che rappresentano il 90% della forza lavoro di tutto il Paese. Dall’edilizia, alla ristorazione, agli hotel fino ai collaboratori domestici e addirittura come membri della guardia dell’emiro. In Qatar vivono poco meno di tre milioni di persone ma di cui solo una minoranza (circa 200mila) ha la cittadinanza, e rappresenta la componente ricca della popolazione e che gode di ciò che è negato alla maggioranza, ovvero libertà, possibilità e diritti.
Come vivono le persone che hanno reso possibili i mondiali, anche rimettendoci la vita?
VN I villaggi cantieri in cui vivono gli operai edili, la categoria più sottopagata, sono dei micro mondi a sé, dove trovi di tutto. In quello in cui sono stato c’era una moschea, un barbiere, un mini-market. Le abitazioni consistono in container che ospitano quattro letti, ed è lì che dopo aver concluso i loro turni di otto ore all’aperto, la maggior parte dell’anno con temperature molto alte, si sviluppa loro quotidianità. Altri lavoratori che sono impiegati invece in altri settori vivono in appartamenti in quartieri separati da quelli dove risiedono i qatarioti. Qui i lavoratori migranti non vi hanno accesso a meno che non ci lavorino, perché con il loro salario medio da circa 400 euro al mese possono fare davvero ben poco.
Quale è la prospettiva delle persone che hai fotografato, che cosa li ha spinti a recarsi in Qatar, accettando queste condizioni?
VN È importante questa domanda perché spesso, per chi si occupa di queste tematiche, è un aspetto su cui si riflette poco. L’immagine prevalente nel nostro ambiente, e comunque corrispondente alla realtà, è quella dei migranti sfruttati e sottopagati, ma bisogna considerare anche il loro punto di vista. Che spesso è la prospettiva di una persona che ha lasciato la propria famiglia e il suo Paese di origine per andare a cercare fortuna altrove e permettersi anche di mandare dei soldi a casa. Nel caso dei lavoratori edili in Qatar con cui sono stato in contatto, ho imparato che a volte quello è il primo passo per poter magari ottenere un lavoro meglio retribuito in un altro settore, e quindi di conseguenza poter lasciare il villaggio cantiere e andare a vivere in un appartamento. Inoltre, in particolare tra le persone provenienti dal Sud-Est asiatico, ho notato che il Qatar è considerato, ad esempio, una scelta migliore rispetto a un Paese europeo da raggiungere o tramite la rotta balcanica o mediterranea, che comportano molti più rischi. In Qatar ci possono arrivare in aereo, e appena scesi cominciano già a lavorare, tutto questo tramite il ruolo delle cosiddette “agenzie” che fanno parte del sistema della kafala e che agiscono nei Paesi di origine dei lavoratori stranieri secondo dinamiche che ricordano il caporalato in Italia.
Una volta giunti in Qatar, che cosa ne è delle loro aspettative?
VN Non si deve pensare che non ci sia consapevolezza tra i lavoratori migranti delle loro condizioni economiche e di sfruttamento. Anche se potessero cambiare lavoro, cosa che dipende comunque e sempre dal loro datore, non si illudono di poter fare una vita normale come siamo abituati a intenderla, perché in Qatar sanno che continueranno comunque a essere privati dei diritti. Alcuni operai mi hanno raccontato delle reti di supporto che si formano, sempre in modo informale perché in Qatar, di fatto, i sindacati sono considerati illegali. Però spesso di fronte alla necessità di cambiare prevalgono i limiti strutturali della loro possibilità di azione.
A Mondiali conclusi da un mese, quanto è grande il rischio che sui diritti dei lavoratori e delle minoranze in Qatar si spengano i riflettori?
VN Il rischio è altissimo ed è già realtà. Giornalisti e organizzazioni non governative continueranno a denunciare, ma sarà sempre più difficile ricevere l’attenzione dei canali di informazione principali. Basta guardare a come si riporta il modo in cui l’Arabia Saudita sta cercando di ottenere i mondiali del 2030. Oppure pensiamo allo scandalo dei presunti casi di corruzione tra Doha e alcuni parlamentari europei, non mi sembra che si siano levate voci per mettere in discussione il Qatar, né tantomeno i rapporti commerciali, gas in primis. Nel frattempo, a Doha i lavoratori saranno ancora più sotto pressione, perché alcuni degli stadi utilizzati per Qatar 2022 devono essere smontati. Ma nel contesto europeo attuale, dove sembra che intenzionalmente profitti e la convenienza economica debbano sempre prevalere sui diritti, mi sembra molto difficile che a livello strutturale si faccia qualcosa.
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